La sinossi di una delle storie più chiacchierate del momento è semplice: Mark Watney, astronauta disperso su Marte, usa le sue conoscenze di botanica e ingegneria per tentare di sopravvivere e tornare sulla Terra.
La narrazione principale è affidata al diario di Mark, resoconto per i posteri delle strategie adottate quotidianamente (sol dopo sol), per cui possiamo considerare The Martian un romanzo principalmente epistolare. I dettagli tecnici prendono il sopravvento sullo stato d’animo e gli incidenti vengono riferiti e filtrati sotto forma di resoconto analitico. Watney è più McGyver che Cast Away e la sua storia è quasi retrò nell’approccio illuministico, dove il razionalismo è la vera speranza di un personaggio dall’entusiasmo non comune.
Il film è sicuramente costretto a condensare la storia: dividendola tra una prima permanenza nel laboratorio a coltivare patate e un viaggio impegnativo e rischioso, viene tralasciata gran parte del secondo. Numeri e spiegazioni trovano più spazio su carta/e-book, mentre la pellicola si concede qualche licenza e cerca, in realtà senza molto impegno, di mostrare il decadimento fisico di chi è costretto a razionare il cibo, usando una controfigura con il volto coperto per pochi fotogrammi: siamo lontani dalle metamorfosi di DeNiro o Christian Bale; anche così, tuttavia, ne guadagna il volto più umano del protagonista, poiché apprendiamo delle disavventure di Watney mentre accadono e non da un’analisi a posteriori: in particolare l’incidente iniziale è reso in maniera più eccitante e drammatica, complice la recitazione di Matt Damon; tuttavia i momenti di tensione sono presenti in entrambe le versioni, soprattutto nei finali (leggermente differenti), quando l’azione viene descritta in tempo reale anche nel testo originale.
Per finire, il film è godibile come un complemento al libro: quest’ultimo è a un livello superiore per la voce narrante e i maggiori dettagli.