Una scrittura lieve, lineare, semplice (solo in apparenza ) e una narrazione altrettanto lineare, su due piani, quello del processo e quello del passato del narratore, in un crescendo che si trasforma in un turbinio di stati d’animo e di eventi esteriori.
Una manciata di personaggi, fra i quali spiccano il protagonista, un uomo ‘normale’, un medico come tanti, il giudice, che silenziosamente ascolta e accoglie questa lettera, e una ragazza, pallida, minuta, quasi fragile, che rappresenta la punta dell’iceberg di tutta la vicenda.
Classificato fra i romanzi “romanzi” del colosso Georges Simenon e quindi i romanzi che non hanno per protagonista il commissario Maigret, i non polizieschi, Lettera al mio giudice è la storia di un’ossessione, un’ossessione amorosa, la gelosia, la possessione, la mania del protagonista per le donne, in un climax che ripercorre tutta la sua vita, la storia di un’ombra che lo insegue, fino al tragico epilogo. È l’avventurarsi nella psiche di un uomo, come sa fare Simenon. E vi è anche qualche risvolto sociale, in quanto in un gioco di specchi il narratore scrive al giudice ” Siamo quasi uguali Signor Giudice. E allora, se io ho avuto il coraggio di andare fino in fondo, perché lei non dovrebbe avere quello di capirmi?”…”Però, a quel che mi è sembrato di capire, lei ha su di me un vantaggio di almeno una generazione: suo padre era già magistrato mentre il mio lavorava ancora la terra. Non dica che questo non conta “.
Un romanzo che si legge tutto d’un fiato, che smuove dei punti fermi, che risveglia qualcosa di atavico, quell’ombra che se stiamo bene attenti ci insegue, tutti, quel vuoto che Simenon ha saputo cogliere, sviscerare e organizzare nella forma di questa lunga lettera.
“Lei ha paura proprio di quello che è capitato a me. Ha paura di sé stesso, di una certa vertigine che potrebbe coglierla, paura di una nausea che sente crescere in sé, lenta e inesorabile come una malattia “.
E noi?
Di che cosa abbiamo paura?