Grazie per non avermi vista – Benedetta Pennetta

Un racconto breve eppure d’effetto quello di Benedetta Pennetta (perfetto esempio di nome omen!) che ci parla di Bebe, una giovane donna con le tasche piene di sogni e talento che, come molti millenials, lascia il suo paesino d’origine per cercare fortuna e lavoro altrove e che, pur riuscendoci, viene risucchiata in una baraonda nera, in balia di capi incompetenti, luoghi di lavoro tossici e assottigliamento della vita personale. Bebe perde se stessa in una spirale asfissiante fino alla difficile ricostruzione della propria identità, regalandoci queste pagine attualissime, terreno fertile per un prossimo romanzo ad ampio respiro.

Il tuo è un racconto autobiografico: la necessità della scrittura è stata propedeutica alla guarigione o è arrivata dopo?
Fin da subito ho sentito la necessità di mettere la mia storia per iscritto, perché sentivo che poteva rappresentare la storie di tante altre persone. Non ero la sola. Ricordo molto bene quando ho deciso di scrivere il libro. Era febbraio/marzo 2022. Avevo in mente un titolo che poi è diventato quello di un capitolo. Sicuramente scrivere mi è servito per metabolizzare il percorso di psicoterapia intrapreso, una necessità personale che ho voluto fortemente trasformare in passaggio collettivo. Non potevo occuparmi della mia fioritura personale senza pensare a quello che mi stava accadendo intorno e quindi al mio contributo sociale.

Quali pensi siano le cause del burn out lavorativo e perché secondo te ultimamente ci sono sempre più casi?Certamente una concezione del lavoro errata e totalizzante. Con amarezza e un po’ di rabbia, affermo che la mia generazione, i millenials, è stata illusa. I nostri genitori hanno, con enormi fatiche, investito nella nostra educazione, perché convinti che con il diploma di laurea in mano avremmo avuto maggiori e migliori possibilità lavorative. Così non è stato. Lo spirito del sacrificio è sempre stato preponderante e ci siamo convinti che era giusto sforzarsi e vivere anche in condizioni disumane per avere una professione. Abbiamo quindi accettato lavori sottopagati, condizioni lavorative inesistenti e anche lavori non corrispondenti al percorso di studi, pur di lavorare.
Tutto ciò ha agito sulla nostra salute fisica e mentale, quest’ultima per tanto tempo ignorata dalle generazioni precedenti. Infatti è tutt’oggi un argomento molto ostico. Da piccoli ci è stato chiesto “Cosa vuoi fare da grande?” perché il lavoro era inteso come l’unica realizzazione personale. Durante la pandemia, abbiamo avuto tutti modo di riflettere sulle nostre vite e sulle scelte fatte.
L’instabilità ha scosso molti portandoli alla decisione di dimettersi. Nel 2021 sono stati 2 milioni gli italiani che hanno presentato le dimissioni e 2,2 milioni nel 2022. Tra le cause: eccessivo stress da lavoro e clima aziendale tossico. Certamente le multinazionali sono uno dei terreni fertili. Nella maggior parte dei casi, si presentano furbescamente come un ambiente familiare, dove i colleghi sono spesso persone che si frequentano anche fuori dall’orario di ufficio – il ché rappresenta solo un’ulteriore trappola per la relazione tossica – dove, in cambio di qualche penna o agenda brandizzata, ci si mette a disposizione h24 e, quando questo non accade, il senso di colpa e la frustrazione appaiono.

A che punto della sua vita è ora Bebe? Ha già un nuovo lavoro in un contesto diverso?
Mi piace pensare Bebe sulle scrivanie e sui comodini delle persone che stanno leggendo la sua storia. Lei è una donna libera, consapevole, forte e amata principalmente da se stessa. Per questo ora la sua storia può essere utile e il suo compito è quello di entrare in punta di piedi nelle vite di chi sta vivendo il suo stesso dolore e dire sottovoce “So come ci si sente.”

Cosa ti sentiresti di suggerire a chi si trova ora in una condizione lavorativa critica come quella vissuta dalla protagonista?
Innanzitutto, direi che mi dispiace, che non è colpa sua e che la condizione che vive viene da molto lontano, ma soprattutto non cambia. Anche se ci saranno giorni più sereni in cui quel dolore sarà più sopportabile, in realtà non è così. Bisogna scappare. Quel contesto non cambierà, non ti capirà e non ti amerà con la stessa passione che gli si dedica.
Il mio consiglio è quello di mettere un confine sano tra vita lavorativa e privata. Può sembrare impossibile quando ci si trova in queste situazioni, ma bisogna pensare che abbiamo un potere che nessuno potrà mai toglierci che è quello di decidere della nostra vita. Ed è proprio in queste situazioni che deve emergere.
Io credo che il lavoro non ci definisce come persone, ma condiziona tanto le nostre vite quanto quelle delle persone che ci sono accanto, perciò, se non ci sentiamo rispettati e valorizzati, quel posto non fa per noi.
Bisogna quindi trovare la forza per cercare un posto più adatto. Anche la rabbia positiva può aiutare. Finché accetteremo queste condizioni, nulla cambierà. La mia generazione ha ora un compito molto importante: dare al lavoro una nuova concezione e insegnarlo alle nuove generazioni.

 

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Recensione di
Sara D'Ellena

«La mia intenzione è raccontare una storia: in primo luogo perché la storia viene da me e vuol essere raccontata.» Philip Pullman.
Raccontare storie e costruire librerie (immaginarie ovvio!) è la mia passione e la mia unica missione.

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