I perni attorno ai quali “Stoner” ruota sono due: il suo amore per la letteratura e un adulterio; quest’ultimo avviene a circa metà del romanzo e in effetti quanto lo precede funge da introduzione alle motivazioni di questo gesto: ci descrive infatti le origini contadine di Stoner, il suo ingenuo rapporto con le donne, il matrimonio infelice e molte altre cose. Tutto ciò che succede dopo l’adulterio è conseguenza del carattere del protagonista e di quello che è o, meglio, di ciò che si è reso conto di essere, con i suoi limiti e, come già detto, quell’amore per la letteratura che lo ha trasformato da bracciante agricolo a insegnante universitario, inconsapevolmente.
Stoner è un anti-eroe, un po’ Zeno per le sue frustrazioni sentimentali, un po’ Fantozzi per gli scontri con le gerarchie, ma del cui carattere tragicomico ha perso la comicità. Il suo matrimonio è un fallimento, il rapporto con la figlia è fragile. Il professore trova sollievo dalle avversità solo rifugiandosi nella letteratura. Poche scelte nella sua vita riguardano il coraggio di lottare per sé. La sua vita procede piatta e votata alla resa. Non ha ideali, non sa chi davvero sia e sarà proprio la citata relazione clandestina a mostrargli il suo vero essere. Al lettore capiterà spesso, credo, di chiedersi come sia possibile che il protagonista non reagisca diversamente, ma forse è più facile prendere posizione dall’esterno, come quando, magari davanti a un tè, ci vengono raccontate le disavventure di un conoscente.
Il romanzo è breve e scorrevole. La prosa non ha particolari guizzi, almeno nella traduzione italiana. Visti i toni con cui viene lodato, mi aspettavo qualcosa di più. Provate a scaricare un estratto.
A me non era piaciuto, l’ho trovato noioso, banale, antiquato, tra Dickens (ma magari!) e De Amicis. Non racconta niente di originale, è una zuppa di buoni sentimenti e delusioni. Eppure piace molto, ha avuto molto successo. Evabbè.