Il libraio di Kabul – Åsne Seierstad

Il libraio di Kabul (Bokhandleren i Kabul) è un reportage, scritto in forma di racconto, dalla giovane giornalista norvegese Åsne Seierstad (Oslo, 1970), fin dal 1995 corrispondente da alcune delle regioni più tormentate del pianeta: Cecenia, Afghanistan, Iraq. Pubblicato nel 2002, il libro è uscito in traduzione italiana nel 2003.

È il novembre del 2001 e il regime talebano è stato appena abbattuto. La giornalista conosce Sultan Khan, un libraio della capitale afghana, e resta affascinata dalla sua bottega e dalla sua storia. Del tutto inaspettatamente l’uomo acconsente a che la giovane europea viva in casa sua per vari mesi per scrivere la storia della sua famiglia. Così nasce la testimonianza del libro. Nell’introduzione la giornalista spiega di aver assistito direttamente a molti degli episodi raccontati e di aver comunque verificato in più modi le notizie relative ai fatti di cui non è stata spettatrice. Nella storia narrata Åsne resta invisibile al lettore, ma inevitabilmente la materia scottante fa emergere in maniera inequivocabile il suo punto di vista. Capitolo dopo capitolo si compone il quadro della famiglia di Sultan Khan: due mogli, numerosi figli, fratelli e sorelle, nipoti e una vecchia madre. Non è, avverte la giornalista, una tipica famiglia afghana, per trovare la quale bisognerebbe piuttosto inoltrarsi nelle campagne dimenticate: nella casa del libraio qualcuno dei maschi e perfino qualcuna delle donne hanno studiato; alcuni parlano l’inglese; nell’Afghanistan ridotto allo stremo queste persone non soffrono la fame. Nella postfazione l’autrice informa i lettori di come si sono concluse alcune delle vicende rimaste in sospeso al momento della sua partenza: la vita della famiglia continua senza cambiamenti sostanziali.

Sultan Khan è un uomo colto e amante dei libri; lui stesso racconta che «prima i comunisti hanno bruciato i miei libri, poi i mujahidin ne hanno fatto razzia, poi i talebani me li hanno bruciati un’altra volta». Eliminare i libri significa tentare di distruggere tradizioni, identità, dignità di un popolo; significa aprire la strada alla schiavitù: questo il libraio lo sa. Eppure nella sua famiglia egli è un padre padrone, che dispone delle vite di tutti senza che nessuno possa contraddirlo e contrastarlo. Le donne, in particolare, sono private di ogni libertà di scelta e anche quando qualcuna di esse riesce a ritagliarsi uno spazio, esso è estremamente limitato, se non soltanto illusorio.

Due altre figure spiccano, contraddittorie e tragiche, tra quelle dei tanti giovani che affollano la casa: Mansur, figlio diciassettenne di Sultan Khan, e Leila, sorella diciannovenne dello stesso libraio. Sono zia e nipote, ma vicinissimi per età: due figli dell’Afghanistan dei talebani, due vittime di pregiudizi e incultura. Mansur ha confidato e condiviso con la giornalista straniera emozioni ed esperienze molto personali, come quelle legate al pellegrinaggio a Mazar-i-Sharif, e questo può sembrare strano da parte di un giovane che maltratta le donne della sua famiglia non diversamente da suo padre. Tuttavia Mansur, come ha spiegato l’autrice in una intervista (che ora non riesco più a rintracciare nel web), è anche il figlio di un padre che non si interessa minimamente ai suoi desideri e alle sue necessità, che lo opprime e non gli consente di compiere scelte autonome. Evidentemente, conclude la Seierstad, il giovane aveva bisogno di parlare con qualcuno in maniera libera, senza sentirsi giudicato. La sua vita, comunque, non sembra che cambierà.

Leila è l’unica della famiglia di Sultan Khan con cui la giornalista sia riuscita ad instaurare un legame un po’ più profondo, mentre negli altri casi il rapporto è rimasto piuttosto superficiale. La ragazza ha dei sogni, delle aspettative: vorrebbe studiare, vorrebbe sposare un uomo scelto da lei (da cui, in verità, è stata scelta; ma che almeno non le è imposto dalla famiglia). Nulla di tutto questo potrà mai realizzarsi, perché i familiari si oppongono e lei non possiede la forza necessaria per ribellarsi allo stato delle cose. E così continuerà a «mangiare polvere».

La lettura del libro suscita, più di qualunque altra emozione, rabbia: rabbia per le vite immobili, umiliate di quelle donne; rabbia per quei libri bruciati che sono l’emblema dell’identità spezzata, cancellata. Accanto alla rabbia, l’incredulità. Dai talebani non ci si poteva aspettare altro che roghi di pagine, distruzioni di monumenti, soprusi e violenze di ogni genere; ma da uomini come Sultan Khan ci si aspetterebbe la reazione, la ricostruzione. E invece anche loro restano vittime di pregiudizi, di una incultura profonda e diffusa che li risucchia senza speranza e li rende carnefici spietati. Come si può amare i libri, la poesia, la letteratura, e non amare e rispettare la vita?

Per dovere di informazione. Ho letto e recensito questo libro subito dopo la sua uscita in traduzione italiana (2003). Negli anni successivi è sorto un contenzioso tra la giornalista e la famiglia del libraio: portata in tribunale in Norvegia, la Seierstad è stata condannata a pagare un indennizzo per diffamazione e per cattiva pratica giornalistica nei confronti della seconda moglie di Sultan Khan; è in corso un processo di appello. La questione comunque è piuttosto nebulosa e non si trova molto materiale in merito: da quel che mi è parso di capire, il libraio e la sua famiglia si stanno appigliando a dettagli della narrazione e non alle questioni sostanziali.

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Recensione di
D. S.

Sono una lettrice vorace, una cinefila entusiasta e un'insegnante appassionata del suo lavoro; e non so concepire le tre cose disgiunte l'una dall'altra.

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