Gli scrittori esordienti meritano sempre una possibilità, soprattutto se si cimentano nel recupero di figure che hanno fatto la storia e che poi sono state dimenticate. E anche se infine l’opera si rivela non del tutto all’altezza delle aspettative, di certo resterà una lettura della quale non ci pentiremo. È il caso di Via Artom (2016) di Alessandro Musto (Torino, 1976), vincitore del premio letterario La Giara.
Il romanzo segue le vicende di vari personaggi: Fabio, bamboccione impacciato che vive nella grigia periferia di Mirafiori a Torino, ed Enrica, fotografa appassionata e anticonformista, sono due trentenni che si incontrano in occasione dell’abbattimento dei casermoni di via Artom a Torino nel 2004; Tarik è un adolescente marocchino immigrato a Torino nello stesso periodo, col sogno di diventare dj e di lasciarsi alle spalle stenti e miserie; Emanuele Artom era un giovane intellettuale ebreo torinese, partigiano nella Resistenza, morto nel 1944 e a cui è stata intitolata l’omonima via della città nel quartiere Mirafiori.
Nella prima parte del romanzo (i primi 12 capitoli) i tre filoni narrativi restano distinti: si alternano regolarmente capitoli dedicati all’uno, all’altro e all’altro ancora. In realtà l’autore suggerisce dei collegamenti, ad esempio tra il crollo di via Artom a Mirafiori e quelli provocati dalle bombe inglesi durante la seconda guerra mondiale; tutto inoltre converge progressivamente su via Sacchi, al n. 58, dove, in parte concretamente in parte idealmente, le tre storie verranno poi a ricongiungersi. Nella seconda parte del romanzo (i successivi 11 capitoli) l’alternanza diventa binaria, tra capitoli dedicati a Fabio, Enrica e Tarik, che hanno avuto modo di incontrarsi, e capitoli dedicati a Emanuele Artom: la parola libertà diventa, a questo punto, il filo rosso che lega le diverse narrazioni.
Alessandro Musto fa di Torino un ulteriore personaggio del suo romanzo: dalla città ottocentesca descritta poeticamente dal Baruffi, autore di un libro molto caro ad Emanuele Artom; a quella devastata dai bombardamenti alleati nei primi anni Quaranta; a quella contemporanea, divisa tra quartieri centrali e periferici, tra splendori moderni e altrettanto moderni ghetti. La Torino più bella è consegnata però irrimediabilmente al passato, mentre nel romanzo campeggiano i drammi della Torino di guerra e della Torino delle periferie nate durante il boom economico degli anni Sessanta e Settanta e dell’immigrazione contemporanea dall’Africa e dall’Asia.
La casa di via Sacchi che era appartenuta alla famiglia di Emanuele è ora abitata da Enrica, che non conosce la storia degli Artom, ma sente vagamente (e vagamente ha saputo) che tra quelle mura si è svolto un pezzo importante della storia italiana. Lì Enrica invita Fabio a trasferirsi; lì ospita Tarik; lì organizza una mostra fotografica sulle migrazioni del nostro tempo: dalle periferie o dal Terzo Mondo, ugualmente alla ricerca di riscatto e libertà. E così idealmente si crea una sorta di continuità (o si vorrebbe crearla) tra la lotta partigiana di Emanuele per liberare il paese dal nazi-fascismo e la ricerca contemporanea di libertà e realizzazione di sé in un mondo che si definisce globalizzato ma che più spesso innalza muri di quanto li abbatta.
La battaglia di Emanuele si conclude con la sua morte, come insegna la storia, il 7 aprile 1944, a seguito delle torture a cui era stato sottoposto dai Tedeschi dopo l’arresto; ma, come ancora insegna la storia, la guerra di Resistenza è stata vinta: non tutti gli episodi della lotta partigiana possono definirsi edificanti, come lo stesso Artom osservava durante lo svolgersi degli eventi; ma la vittoria c’è stata e avrebbe dovuto porre le basi di un’Italia finalmente moderna, libera e democratica.
Ma quella vittoria è stata tradita, almeno in parte; quei valori di libertà, di democrazia, di uguaglianza non sono a tutt’oggi pienamente affermati: questo mostra infine Alessandro Musto. Esistono ancora troppe periferie degradate, l’integrazione degli stranieri è più difficile di quanto manifesti e proclami dicano; ma soprattutto sopravvivono ancora troppi pregiudizi, troppe paure, troppi equivoci che dividono gli uomini, invece di unirli.
E allora il romanzo, strutturato in maniera forse troppo schematica e scritto in una prosa forse troppo “fiorita” (ma non priva di tratti di originalità, come la narrazione delle vicende di Emanuele alla seconda persona singolare, a creare un legame di empatia tra narratore e personaggio), può avere due fondamentali meriti: far riscoprire ai lettori la figura di Emanuele Artom e farli riflettere su quanto sia ancora lunga la strada, e ambiguamente lastricata di buone intenzioni, per dare vita ad una società nuova, multietnica, multiculturale, libera e democratica, in cui le stesse opportunità siano offerte davvero a tutti.