L’invenzione dell’amore – T. Stoppard

Omosessuali?
– Non siamo niente finché non abbiamo una parola che ci identifichi.
– Omosessuali? Chi è il responsabile di questa barbarie?
– C'è qualcosa che non va?
– È metà greco e metà latino!

L'invenzione dell'amore è un testo teatrale. E il protagonista è Alfred Edward Housman, conosciuto tra i classicisti come latinista di grande acume e rigore. Il suo saggio The application of Thought to Textual Criticism del 1921 è una pietra miliare della teoria filologica moderna. Per darvi un'idea del personaggio, così come ogni classicista se lo ricorda, sarà sufficiente citarne la conclusione: 
"To be a textual critic requires aptitude for thinking and willingness to think; and though it also requires other things, those things are supplements and cannot be substitutes. Knowledge is good, method is good, but one thing beyond all others is necessary; and that is to have a head, not a pumpkin, on your shoulders and brains, not pudding, in your head".

Questo, dunque, Alfred Edward Housman. E uno pensa: cielo, una pièce su questo matto, sarà una noia!
E invece no. Perché Housman oltre a scrivere lapidarie massime di buon senso filologico, ebbe una vita densa di amore, di dolore e frustrazione, in un periodo in cui a questo dolore e a questa frustrazione a stento si poteva persino dare un nome. Il suo amore, non ricambiato, per Moses Jackson è un sentimento che per tutta la pièce Housman – che è condotto nell'Ade dopo la sua morte dal traghettatore Caronte – cercherà di sublimare e di giustificare nascondendolo dietro un forte legame di amicizia leale, fra uomini, che dura per tutta la vita, e che, casto e virile insieme, unisce i compagni d'armi della falange oplitica come gli impiegati all'ufficio brevetti di età vittoriana. Si ha l'impressione che per tutta la vita Housman abbia cercato di reinventare una passione che non poteva altrimenti accettare.
Jackson – eterosessuale, e fino a evidente prova contraria convinto di quella dell'amico – delude Housman, che è costretto a lasciarlo andare: Jackson era metà della sua vita, e dopo averlo abbandonato lo lascia andare avanti, e sopravvivere, a metà.
Il sentimento idealizzato e discreto di Housman fa da contraltare alle inclinazioni esibite e autocelebrate di Oscar Wilde che dal 1895 al 1897 – anni in cui è ambientata per lo più la vicenda rappresentata – fu imprigionato per indecenza nella prigione di Reading. La vicenda, famosa e discussa, di Wilde, costituisce la cornice storica della vicenda rappresentata da Stoppard. In questa, meno esibizionista ed estremo, Housman è una figura 'normale', in apparenza – solo in apparenza – scialba, in cui la storia di Wilde si riflette, si stempera trovando una voce nuova.

La pièce di Stoppard (difficile dirla una tragedia o una commedia) si svolge nell'Ade, ove Housman arriva traghettato da Caronte. Questi inferi non hanno nulla di infernale, fatto salvo che in essi si rivive da spettatori la propria vita. E così Housman (AEH) ritrova se stesso da giovane, ritrova Jackson, ritrova Wilde, in una ricreazione escatologica della Oxford di fine Ottocento. Fra partite di cricket, vogate, discussioni filologiche. All'inizio il lettore è disorientato, non riesce a comprendere il chi e il perché di tutto questo. Un'alienante atmosfera alla Tre uomini in barca (per non parlar del cane; anche J.K. Jerome ha una parte nella pièce), densa di english humour, accoglie il lettore / spettatore in un mondo di sentimenti che prima si credono assenti, e poi si scoprono densi, nascosti e coinvolgenti nelle pieghe del dialogo: alla fine, in una toccante catabasi emotiva, siamo lasciati soli col dolore e nel dolore di AEH a cui non è risparmiato, nemmeno alla fine, nemmeno nella morte, uno scambio di battute dolorosamente divertente con Wilde.

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1 commento
  • Una volta tanto, sia consentito a uno dei contributors della libreria di non firmare un suo intervento. Non è la mia privacy che sto tutelando, ma quella di qualcuno che non è più tra noi. E quella dei superstiti.
    Però qualcosa voglio dire, perché un'emozione forte mi ha fatto barcollare nel leggere le parole che aprono questa recensione: "Omosessuali? Non siamo niente finché non abbiamo una parola che ci identifichi". Non l'avevo mai letta così, questa condizione. O qualsiasi altra condizione. Non so neppure cosa voglia dire questa frase nel contesto dell'opera: quello che leggo io è che forse sarebbe meglio, non essere niente. Un'identità può essere amata e si può esserne orgogliosi, o la si può vivere come un marchio d'infamia. Purtroppo la nostra è una società che sempre più sta tornando al tribalismo, in cui le persone vengono giudicate non per quello che fanno, ma per quello che sono: non Giorgio, Maria, Ahmed, Saira, ma Rom, extracomunitario, terrone, clandestino. Frocio. E di identità si può morire: negandola, e negando ciò che quell'identità si porta dietro. I virus però non ti consentono di negare, anche se per continuare a tenere gli occhi chiusi arrivi a non curarti. Loro sono creature elementali, indifferenti alle nostre idiosincrasie.
    Sono passati anni, e ancora mi emoziona tutto ciò che in qualche modo mi riporta a te, magari in modo fugace e inatteso come questa recensione, davvero bella e piena di sensibilità, di cultura, di umanità. Quello che piaceva anche a te. Ancora una volta addio, amico mio.

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