Vasta è la prigione – Assia Djebar

A dispetto delle mie solite recensioni, in cui mi attardo, o per lo meno cerco :P, di darvi notizie sulla vita, sulla poetica (e su come entrambi questi aspetti si intreccino fino a dar vita all’opera in questione), stavolta vorrei soffermarmi solo sulle impressioni che ho avuto leggendo, ormai tanti anni fa, questo libro.
Vasta è la prigione - Assia DjebarAggiungerò solamente che il libro, che ha vinto nel 2002 il Premio per la Pace, racconta basilarmente quattro storie sulla condizione femminile in Algeria: la battaglia intima di Isma per confessare a sé e a suo marito di amare un altro uomo; la storia di una stele berbera, priva di qualsiasi interpretazione; la vicenda  di Isma su un set cinematografico, mentre ricorda sua nonna e la tragica vicenda di sua madre; il lamento funebre per una giovane giornalista uccisa da un gruppo di fondamentalisti.
Questi quattro racconti racchiudono un nucleo fondamentale, oltre alle tematiche note della questione femminile nei paesi musulmani e della tragicità del fanatismo religioso, e cioè sono strettamente connessi dal filo conduttore dell'”impossibilità del linguaggio”.
Sappiamo che i semiotici distinguono il linguaggio dalle lingue. Il linguaggio, in soldoni, è ciò che sta prima della lingua, ciò che permette all'”animale” uomo, mediante il suo modo di rappresentare e di concepire il mondo, (che varia non solo da cultura a cultura, attraverso una lingua, ma ovviamente, da persona a persona all’interno di una medesima cultura) di esprimere sé stesso, di produrre segni.
Ora non ci dilungheremo oltre sulla questione dei segni, complessa ed affascinante allo stesso tempo, ma diremo soltanto che durante la narrazione della Djebar, potremo accorgerci di come le quattro storie narrino con spasmo e caparbietà della necessità della ricerca di un linguaggio appropriato, o della possibilità eventuale dell’esistenza di un linguaggio, per esprimere sé stessi, per esprimere i ricordi, la memoria, per esprimere la propria cultura e la storia delle donne, e in questo caso delle donne algerine, delle donne della famiglia di Isma, che dietro il chador non hanno potuto far altro che rimanere mute davanti agli occhi degli uomini che hanno impartito loro dettami e ordini, e che ne hanno fatto i loro oggetti pur attraverso l’unico approccio che esse hanno con il mondo esterno: la fessura del chador.
Il romanzo ha vinto, oltre il premio già citato, moltissimi altri premi, come il Prix Maurice Maeterlinck nel 1995 (Belgio) o l’International Literary Neustadt nel 1996 (USA) e non a torto perché la vastità, la densità e al tempo stesso l’attualità delle tematiche affrontate dalla Djebar è davvero impressionante. Con tali motivi ispiratori, l’autrice apre nuovi orizzonti nella mente del lettore, orizzonti che l’uomo conosce dentro di sé sin dai bagliori della storia e della civiltà, ma che con la modernità sono andati persi nella cultura e sono rimasti segregati ( forse seppelliti) nella coscienza e nella memoria di ognuno di noi.

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Recensione di
Vivien

If you wish to travel far and fast, travel light. Take off all of your envies, jealousies, unforgiveness, selfishness and fears.

(From Victoria Hostel kitchen wall, London, 6th April 2014)

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