A dispetto del titolo, questo libro non narra una storia d’Amore; o meglio, racconta di un amore malato, un amore unidirezionale fra un architetto borghese, rimasto nel suo intimo un giovane sognatore romantico, e una ragazza squillo ignorante, ma scaltra, cinica e bugiarda che si approfitta di lui.
Così è la vicenda, almeno per come l’ho letta io. In essa sono insite sia la tematica del conflitto di classe, sia quella che è la tematica tipica dell’autore, che ritroviamo in tutte le sue opere e che esplode nel Deserto dei Tartari: la tematica dell’attesa, della speranza e dell’illusione. È la metafora della vita, l’attesa di qualcosa che non arriverà mai.
Tutta la produzione di Dino Buzzati si caratterizza per essere una metafora della vita: ogni singola opera, ogni singolo racconto rappresentano varie fasi della vita umana e sono uniti l’uno all’altro come se fossero frammenti di un unico romanzo. L’elemento dell’attesa è una costante, tremendamente realistica ed attuale, perché credo che, oggi più che mai, qualsiasi essere dotato di un minimo di sensibilità e non superficiale vi si possa riconoscere.
Se ciò non bastasse, a confermare la genialità di Buzzati è il linguaggio che usa in questo romanzo: eccezionale per come ci prende nelle descrizioni di Milano, ma non solo, è particolare perché è il linguaggio interno di una mente innamorata ed innovativo per l’uso della punteggiatura.
A ciò si aggiunga la poliedricità di questo autore, che si è distinto anche nella pittura e nel disegno (tutti i suoi libri sono da lui stesso illustrati), nella poesia, nel giornalismo, nel teatro.