Ferzan Ozpetek è un nome che, anche chi non è espertissimo di cinema, ha imparato a conoscere e ad amare attraverso i suoi film, che personalmente ho sempre trovato di un livello più alto, più genuino, con meno edulcoranti, rispetto a film simili.
Solo leggendo questo romanzo, ho realizzato che Ozpetek è uno di quegli artisti che non inventa, ma che ha l’incredibile e raro talento di saper ascoltare la quotidianità e quella marea di storie nella quale la nostra vita galleggia (e a volte affonda); non crea ex novo i suoi personaggi ma li ruba dalla realtà, tirandoli fuori al momento giusto e plasmandoli per il grande schermo.
In questo romanzo è lo stesso Ozpetek a raccontarsi durante un viaggio in auto che condurrà lui e il suo compagno fuori città, in una destinazione che ci sarà nota solo alla fine del racconto e lo fa un po’ parlando, un po’ ricordando episodi della sua vita.
A concorrere per il ruolo di protagonista del libro insieme a Ozpetek c’è sicuramente Roma, città di adozione del regista turco, che lo accoglie adolescente e lo cresce nel suo vortice colorato degli anni ’80 in un palazzo sull’Ostiense (storica via e quartiere della città eterna) in un clima di libertà, leggerezza e trasgressione che solo diversi anni dopo è stata macchiata dall’incubo dell’AIDS.
Ci troviamo davanti ad una biografia romanzata del regista che incontriamo nel tentativo di affermarsi nel mondo del cinema circondato da una variopinta moltitudine di personaggi che spesso sono un dejà-vu di uomini e donne già visti sullo schermo nelle sue pellicole, che ci fanno sorridere, stringere il cuore e sì, anche commuoverci.