Room – Emma Donoghue

Jack ha appena compiuto cinque anni: li festeggia in una , appunto Room, che è il suo solo mondo. Mai ha cacciato il naso fuori – sarebbe morto di una qualsiasi infezione – e nemmeno sa che cosa c’è fuori. Sa solo che c’è un Outside.

Il punto di partenza di questa storia è molto audace, è una sfida

che può lasciare soddisfazioni in chi la scrive e in chi la legge, se affrontata degnamente. Tutto questo non succede nel migliore dei modi, ma almeno un po’ ci si avvicina.

La storia, in breve, è questa: Jack e sua madre, Ma, sono rinchiusi in un monolocale. Un bel giorno, Ma elabora un piano di fuga, servendosi di Jack come esca. I due riescono a fuggire, passano qualche tempo in ospedale, e tornano alla vita normale. Spoiler? Ci si aspettava una risoluzione così lineare? È giusto che i soli ostacoli incontrati per strada siano qualche capriccio di Jack, che però sembra adattarsi alla vita reale con troppa facilità? No. Ci sono i piccoli screzi con la madre, ma tutto quello che succede non sembra raccontato con la giusta profondità: non è dato lo spazio e il tempo giusto alle cose giuste. I particolari con cui si descrive la vita del bambino nella stanza o le piccole prediche della madre – mascherate sotto forma di descrizione del mondo esterno – sono spesso stucchevoli, ovvi, e sarebbero stati molto più rappresentativi dell’assurdità della situazione se si fosse trattato di qualcosa di inconsueto.

C’è da aggiungere, però, che questo non è un tema facile da affrontare, proprio per i rischi di cadere nel retorico o nell’insensibilità: Room si tiene in equilibrio tra i due estremi, con qualche puntata di troppo nel primo polo. Il personaggio di Jack, poi, è delineato con chiarezza e talvolta risulta pure antipatico: a un bambino, però, si perdona tutto.

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