Orfani bianchi è un gioiello di libro, commovente e vero.
E’ la storia di Mirta, moldava, una delle tante donne che frequentano le nostre case per accompagnare i nostri nonni, zii, genitori nel loro ultimo tratto del viaggio della vita, mentre noi siamo in altro affaccendati. Orfani bianchi sono i bambini, come quello di Mirta, che vengono lasciati nei loro paesi, nella migliore delle ipotesi con i nonni o il papà, in molti casi in un istituto o orfanotrofio, come nel caso del figlio di Mirta. Si trovano in un orfanotrofio ma i genitori sono vivi, per questo si dicono orfani bianchi. Si sentono abbandonati e ne soffrono, in qualche caso si suicidano. Antonio Manzini è magistrale nel descrivere questa sofferenza.
Chi mai si è chiesto quale è il prezzo che pagano queste donne, e in generale chi lascia il proprio paese per dare ai figli un futuro (non direi migliore, semplice futuro)? Il prezzo è molto alto. Antonio Manzini, confrontandosi con un personaggio e uno scenario diversi da Rocco Schiavone, se lo è chiesto e, dimostrando come sempre una sensibilità fuori dal comune, ha descritto la vita e i sacrifici di Mirta e dell’ambiente degli immigrati. Finalmente esiste qualcuno che, in un mondo in cui tutti siamo presi dai nostri problemi, chini con le nostre dita su un touch screen, si è chiesto cosa ci sia dietro l’altro, quali sacrifici, quali desideri, quali sofferenze. In questo modo ha rotto il muro dell’indifferenza, nella migliore delle ipotesi, o della paura del diverso, ruba lavoro o che delinque, nella peggiore.
Questo libro è un crescendo di vicende che si svolgono fra Moldavia e Roma, con degli intermezzi epistolari e un finale che è un colpo di fucile al cuore. Molto interessante è anche il rapporto che si crea fra Mirta ed Eleonora, ricca , anzi ricchissima donna, cui Mirta è incaricata di badare. Anche Eleonora soffre, pur nello sfarzo della sua villa, perché abbandonata dalla famiglia alle amorevoli cure di Mirta, e perché la malattia le ha tolto la dignità. La sofferenza è unica e fra le due si crea un rapporto di complicità che forse solo la disperazione sa dare.