Recensito positivamente dal Guardian, dal Sunday Times e da altri ancora, L’uomo che voleva uccidermi (Akunin, 2007) è un thriller di Yoshida Shūichi (Nagasaki, 1968) molto apprezzato in patria e solo recentemente tradotto in italiano. Siamo davanti ad una lettura non impegnativa ma certamente anche non superficiale, e più vicina a noi di quanto possiamo pensare.
La notte tra il 9 e il 10 dicembre 2001, sul valico di Mitsuse (tra Fukuoka e Saga), la ventunenne Yoshino viene assassinata. Indagando sull’omicidio, la polizia scopre che la giovane conduceva una vita ben diversa da quella che raccontava ai genitori e alle colleghe.
La vicenda si svolge nell’arco di circa un mese, tra il dicembre del 2001 e il gennaio 2002, ma il tempo della storia si dilata notevolmente attraverso i flashback sulle vite di alcuni dei personaggi, che si muovono tra villaggi di pescatori, cittadine di provincia e metropoli.
La trama “gialla” non è l’elemento narrativo più interessante, anche perché alcuni indizi, sparsi lungo la narrazione, lasciano indovinare il colpevole con un certo anticipo. Sono le motivazioni dell’omicidio che interessano, ed è l’epilogo ultimo della vicenda che tiene col fiato sospeso, fino ad una conclusione che si apre a diverse interpretazioni.
Nel romanzo si intrecciano le storie di quattro giovani: Yoshino, divisa tra le sue origini provinciali e il miraggio di una vita scintillante; Keigo, arrogante e superficiale figlio di papà; Yūichi, cresciuto dai nonni e chiuso in un silenzio ombroso; Mitsuyo, desiderosa di una vita più intensa e appassionata. Sono tutte storie di noia, di insoddisfazione, di irrequietezza, di solitudine: i giovani uomini e le giovani donne di questo romanzo vivono come in balia delle onde, alla ricerca di una rotta che non sanno tracciare e di un porto che non riescono a individuare. Le generazioni precedenti appaiono più sane, più sicure dei propri punti di riferimento, ma forse proprio per questo incapaci di comprendere l’inquietudine dei figli e dei nipoti.
La storia è ambientata in Giappone, ma se non ci fossero futon, fusuma e pietanze tipiche a ricordarcelo, potrebbe essere una vicenda nostra, in questo tempo di globalizzazione dell’incertezza e del disagio interiore che colpisce proprio i Paesi più avanzati e più prosperi: lì dove le sirene incantatrici del consumismo e del progresso tecnologico continuano a mietere vittime mentre sentimenti, emozioni, passioni tendono ad essere svalutati e accantonati.