In questi giorni, presso l’Università di Poitiers, si sta tenendo un ciclo di conferenze sul tema “Sonetto e politica”, ed io ne sto prendendo parte. Devo dire di essere rimasta in parte delusa dagli interventi che sono stati fatti: l’argomento è decisamente troppo circoscritto per avere la necessitá di parlarne esaustivamente per più di tre giorni, così come il binomio tra sonetto e discorso politico è un pochino fuori dalla realtá dell’esegesi di questa forma poetica. Per cui, volendo in partenza parlare un pò di quel che è stato detto fin’ora a Poitiers, ho cambiato idea e mi fa molto piú piacere parlare di uno dei poeti italiani a me piú cari.
Non voglio qui, ora, riassumere didascalicamente l’entourage e le coordinare dello sfondo sociale di Quasimodo, vorrei parlare un pò di piú della bellezza del suo linguaggio, bellissimo e musicale, suggerente magnifiche immagini e sentimenti, pur non costruita attraverso forme metriche ma nella libertá dei versi sciolti.
La mia giornata paziente
a te consegno, Signore,
non sanata infermità,
i ginocchi spaccati dalla noia.
M’abbandono, m’abbandono:
ululo di primavera,
è una foresta
nata nei miei occhi di terra.
Qui abbiamo, se lo vogliamo incastonare nei nostri schemi didattico-storici chiamiamolo ermetismo (e non facciamo male), un confluire di desideri e sentimenti riprodotti su carta mediante una sintassi così leggera, così traslucida da mozzarci il fiato. Traslucida perchè ogni parola e ogni sintagma verbale (frase) rimanda ad echi più profondi, come quella non sanata infermitá, sinonimo del sacrificio del vivere, e nell’abbandono, in quel fidarsi – affidarsi a Dio, l’ululo della ribellione della vita, impersonificata dalla primavera, che è anche il tempo della scrittura; infine la foresta, sinonimo della vita, nata in quei suoi occhi di terra, colore genetico e simbolo dell’humus, nonchè specchio dell’anima, ci fa pensare a qualcosa di nuovo, di grande e maestoso nato nel suo animo. Ma questa è pur sempre una mia personale interpretazione, come anche quella che seguirà.
Ed ecco un novenario:
In alto c’è un pino distorto;
sta intento ed ascolta l’abisso
col fusto piegato a balestra.
Rifugio d’uccelli notturni,
nell’ora più alta risuona
d’un battere d’ali veloce.
Ha pure un suo nido il mio cuore
Sospeso nel buio, una voce;
sta pure in ascolto, la notte.
Non so a voi ma a me, quello che lascia incantata di Quasimodo, è quel “soffondersi” di natura e mistero, un “mistero del reale”, forse onirico ma fatto di dati e soggetti del reale, della realtà: non c’è spazio per il “fantasy”, la realtá per lui è traboccante di bellezza, di fantasy non ne ha bisogno. Ne abbiamo letti tanti nella storia di paragoni tra l’intimo umano e la natura, ma…come questo…Il pino distorto per esempio è un sintagma fortemente descrittivo, così, nella sua breve essenzialitá: non si forma anche nella vostra mente, nel leggerlo, l’immagine, forse uno schizzo, un quadro ombreggiato dai toni blu notte, grigio e verde scuro, nero, dell’arbusto ritorto e piegato in basso verso la terra? “Sta intento ed ascolta l’abisso” come la notte è in ascolto, il cuore dormiente, il cuore libero come un uccello notturno, che si fa sentire solo per il suo frullare d’ali, nel silenzio quieto del riposo naturale. E quella parola, abisso, non rimanda forse all’infinito dell’anima, dagli infiniti moti?
Due intense poesie e due bellissime interpretazioni.
Ti ringrazio; io spero che questi pochi assaggi motivino tanti lettori a leggere di più la poesia, ma quella buona! :-)
Sono d’accordo. Purtroppo la poesia è sentita ancora più distante della prosa, mentre invece… parla di ognuno di noi!