Nonostante mi fossi ripromessa di essere più accorta, mi sono lasciata di nuovo ingannare da un titolo e da una trama che promettono ciò che il libro in realtà non offre. Il titolo italiano, peraltro, è molto accattivante ma non corrisponde affatto a quello originale: se ci avessi badato, forse avrei evitato un acquisto infelice. Il libro è il romanzo di esordio di Rebecca Makkai (Skokie, 1978), già nota per numerosi racconti, L’angolo dei lettori ribelli (The borrower), pubblicato nel 2011.
Lucy è nata negli USA da padre russo rifugiato e madre ebrea, ha 26 anni e si occupa del settore ragazzi della biblioteca di una cittadina di provincia; Ian è figlio di genitori bigotti che intendono rieducarlo perché lo ritengono gay, ha 10 anni e frequenta assiduamente la stessa biblioteca. La giovane donna e il ragazzino, accomunati dall’amore per i libri, da qualche piccola mania e da un confuso bisogno di identità e libertà, saranno protagonisti di una fuga in auto attraverso gli States, in un viaggio che li avvicinerà e li dividerà poi probabilmente per sempre.
Nonostante il romanzo sia stato recensito molto positivamente da più parti, non mi sento di condividere tanto entusiasmo di editori e lettori. Le circa 350 pagine, come si suole dire, si divorano; ma quando un libro scorre tanto facilmente non è detto che sia un buon segno: un buon testo, anzi, obbliga spesso il suo lettore a ripetute pause, alla riflessione, anche a costo di sacrificare la curiosità.
La protagonista femminile è una donna debole e irresoluta, che spesso addormenta nell’alcool i suoi sensi di colpa e di inadeguatezza. Una perdente, dunque, che si riscatta solo in piccola parte nel finale. Naturalmente non è il suo fallimento in quanto tale a togliere valore al personaggio e al libro: la letteratura mondiale ha conosciuto tanti “inetti”, tanti “anti-eroi” riuscitissimi di romanzi indimenticabili; il problema è che il ritratto di Lucy e l’intera narrazione restano, nonostante le pretese di introspezione e di analisi, piuttosto superficiali e infarciti di luoghi comuni, di simbolismo spicciolo e di qualche similitudine di gusto discutibile. Lucy è una nevrotica circondata da nevrotici, persone sole ciascuna chiusa nella propria mania o nella propria ossessione, molti dediti all’alcool, tutti in qualche misura farseschi. Farseschi, però, senza ironia, senza autoironia: in una parola, banali e deprimenti, fino a sfiorare il ridicolo. Dei lettori ribelli di cui parla il titolo italiano c’è solo una vaga traccia sbiadita.
L’idea di fondo del romanzo non è priva di originalità, così come è assolutamente condivisibile il messaggio di libertà che l’autrice ha inteso comunicare; tuttavia siamo davanti ad un’opera immatura e però anche pretenziosa, sostanzialmente non riuscita. Se la morale è, come spesso la protagonista ripete, che i libri possono salvare la vita, essa non vale per questo romanzo.
Una parziale eccezione è costituita dal finale, aperto, che contempera bene malinconia, nostalgia, tristezza e speranza (pur in un eccesso di enfasi). Sul personaggio di Ian, che è senza dubbio quello meglio costruito, si appuntano le speranze. Non solo quelle di Lucy, ma anche quelle del lettore (che, stando a quanto dichiara l’autrice, deve aspettarsi una sorta di seguito): che a sipario chiuso, almeno per lui, ci sia stato un finale diverso: magari infelice, ma non squallido.
è più adatto il titolo originale o quello italiano? dalla trama non si capisce molto.
E in effetti, se non me l’avessi detto tu, avrebbe tratto in inganno anche me, sicuro! perciò, grazie.
Il titolo italiano è bellissimo ma ingannevole. Il titolo inglese è decisamente più adatto. ;)