Parlare di Roald Dahl e di Matilda, quando si racconta la letteratura dell’infanzia e in particolar modo degli anni in cui noi siamo stati bambini, è quasi inevitabile. Quasi tutti noi lo abbiamo letto, e quasi tutti ci siamo riconosciuti – o abbiamo solo sperato di farlo – in quella ragazzina bassa coi capelli lunghi e il naso sempre infilato tra le pagine di un libro.
La trama è nota a tutti ma, al di là dell’originalità, della maestria e delle splendide invenzioni fantastiche messe in atto da Dahl, c’è molto di più. Matilda è stata per me – come credo per molti altri – una sorta di manifesto di intenti, un baluardo per poter portare avanti quella che ero senza più vergogna. Se sei un bambino solo, magari figlio unico, piuttosto timido e imbranato (una parola, questa, che non si usa quasi più adesso – l’avete notato?) è molto facile che i libri diventino il tuo rifugio, il tuo conforto, il tuo piccolo angolo di spensieratezza in cui immergersi per staccarsi un attimo da un mondo che là fuori corre e brulica e sbuffa come un mare in piena tempesta. Piano piano impari ad amare i libri per davvero, come si amano solo le cose che non ti hanno mai tradito. Ti fidi di più delle parole scritte che di quelle reali, e finisci col trovare le risposte alle tue domande da solo, tra pagine bianche e righe nere d’inchiostro.
Il che non è sempre un bene, anzi. Certe volte ti si ritorce contro, anche molti anni dopo.
Questo libro è straordinario perché Dahl è riuscito a raccontare una bambina così privandola di tutto il lato introspettivo e a tratti doloroso che questo tipo di crescita porta con sé. Matilda è sì una bambina timida e riflessiva, estremamente intelligente, tranquilla e un po’ impacciata – ma ha anche un bel caratterino, è in grado di capire quello che vuole e lotta per ottenerlo, non si piega mai né di fronte all’ottusità stolida della sua famiglia, né alla crudeltà della signorina Spezzindue, nemmeno a un mondo che sembra incapace di accoglierla e di accettarla per come è. Prende le distanze dai suoi genitori, riesce a sgominare con fantasia e coraggio la Spezzindue, trova nella signorina Dolcemiele un’alleata, un’amica e infine una famiglia, capisce che la vita vale la pena di essere vissuta e sceglie di farlo fino in fondo. Mica male per uno scricciolo occhialuto, vero?
Poi, c’è la magia. Nei libri di Dahl è quasi sempre presente, ma non è mai portata all’estremo, non si corre mai il rischio di farla diventare caricaturale. Si tratta di una magia semplice, surreale, a tratti quasi ironica – serve a mio avviso per dare quel tocco in più alla storia trasformandola da bella a straordinaria, ma non ne è mai il fulcro.
Questo perché, forse, quello che Dahl vuole provare a dire è che la vera magia è crescere. Imparare ad andare avanti facendosi scudo dalle brutture del mondo, capire che la felicità è un diritto e non un regalo che viene dall’alto, che bisogna costruirsela su misura, sbagliando, cambiando idea, tornando indietro se è il caso e afferrandola quando ci passa davanti, senza pensarci su due volte.
Un consiglio per tutti: anche se lo avete già letto mille volte da bambini, rileggete questo libro da adulti. Si scoprono, come sempre, molte cose e diverse prospettive che allora sfuggivano.
Fantastico… e io poi associo a questo libro anche “Le streghe”, con quella copertina impossibile da dimenticare!
L’ho lessi anche io a suo tempo, veramente bello
pardon… volevo dire l’ho letto… -.-