Busti d’autore #5 – Italo Calvino

Non so ricostruire con sicurezza a quando risalga il mio primo incontro con l’opera di Italo Calvino (Santiago de Las Vegas, 1923 – Siena, 1985). Deve essere stato nei miei primissimi anni di insegnamento; ma se non ricordo precisamente quando ciò sia avvenuto, il fatto ha evidentemente una sua ragione. A parte qualche racconto su Marcovaldo, i primi libri di Calvino che ho letto sono stati i tre romanzi della trilogia I nostri antenati (Il visconte dimezzato, Il barone rampante e Il cavaliere inesistente). Successivamente, complice anche un’amica e collega che si definiva “innamorata” di Calvino, mi sono cimentata con altri romanzi e racconti.

Io, però, non mi sono mai innamorata.

L’opera di Calvino narratore è vastissima e tocca generi e temi diversi, seguendo anche l’evoluzione della letteratura europea contemporanea. Sui manuali scolastici si distinguono le narrazioni realistiche, quelle fantastiche e quelle di ispirazione strutturalista; ma naturalmente si tratta di classificazioni utili sul piano didattico che non devono mai essere riprese e utilizzate in maniera troppo rigida.

Per quanto riguarda il filone realistico, si tratta dei romanzi composti tra gli anni ’50 e i primissimi anni ’60, in cui l’autore descrive l’altra faccia dell’Italia del boom economico, attraverso storie che hanno sempre un fondo autobiografico: ad esempio La speculazione edilizia (prima edizione 1957), in cui il giovane intellettuale Quinto si imbarca in un’impresa edilizia sullo sfondo della cementificazione selvaggia della Liguria di quegli anni; o La giornata d’uno scrutatore (1963), il cui protagonista Amerigo (un altro intellettuale) vive una profonda crisi personale e ideologica acuita dall’esperienza di scrutatore presso il Cottolengo di Torino.

A metà strada tra il filone realistico e quello fantastico si collocano i racconti dedicati a Marcovaldo (Marcovaldo ovvero le stagioni in città, prima edizione 1963), il campagnolo venuto in città, goffo e trasognato, al quale va sempre tutto storto. Intorno a lui un’ambientazione cittadina fatta di palazzoni, cartelloni pubblicitari, strade trafficate, in cui il protagonista non riesce a riconoscersi e a ritrovarsi. Una maniera più leggera e divertente, rivolta soprattutto ad un pubblico giovane, per riflettere sugli epocali cambiamenti di quegli anni.

Tuttavia la vena più autentica e felice dello scrittore resta quella fantastica, che lo spinse anche a raccogliere le fiabe della nostra tradizione (Fiabe italiane, 1956); non a caso Calvino amava profondamente Ludovico Ariosto e il suo Orlando Furioso, a cui ha dedicato anche una famosa rilettura. D’altro canto, come si comprende immediatamente attraverso la lettura e come lo stesso autore ha spiegato in numerose interviste, le trame fantastiche alludono sempre anch’esse a temi e problemi dell’attualità. La lezione ariostesca, effettivamente, era proprio questa: nel suo poema cavalleresco lo scrittore rinascimentale aveva lasciato sciolte le briglie della sua fervida fantasia, ma non aveva rinunciato a raccontare, attraverso storie di cavalieri, principesse, maghi e ippogrifi, le vicende della vita e del mondo e la sua concezione dell’uomo. Calvino dunque chiede ai suoi lettori di accostarsi alla trilogia degli antenati (pubblicata in volume unico nel 1960; i singoli romanzi risalgono rispettivamente agli anni 1951, 1957, 1959) con spirito e intelligenza, per sorridere e riflettere al tempo stesso: le tre storie, ambientate in tre diverse epoche del passato e caratterizzate da eventi improbabili o decisamente surreali, costituiscono infatti – secondo una definizione dello stesso autore – tre riflessioni sull’ “essere” nel mondo contemporaneo.

Nel 1964 l’autore si trasferì dall’Italia (dove aveva vissuto dalla primissima infanzia) alla Francia e lì, inevitabilmente, subì l’influenza degli studi strutturalistici che allora avevano in Barthes uno degli esponenti di maggiore rilievo. Nacquero così le opere “combinatorie”, in cui lo scrittore si diverte a smontare e a rimontare le componenti della narrazione senza però rinunciare ad alludere alla realtà contemporanea: tra i titoli di questo periodo spicca Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979), storia di un lettore e di una lettrice alla ricerca di un libro di cui non riescono a concludere la lettura e che si frammenta in tanti altri incipit senza conclusione. Allo stesso periodo e alla stessa temperie appartengono le Cosmicomiche (prima edizione 1965), una delle opere più felici della produzione di Calvino: sono racconti fantascientifici ambientati però ai primordi del cosmo, con un ribaltamento delle consuetudini della letteratura fantascientifica; ogni narrazione trae spunto da una teoria o da una scoperta della scienza del tempo (Calvino veniva da una famiglia di scienziati e l’interesse per le discipline scientifiche lo accompagnò per tutta la vita, seppure sempre subordinato al suo amore per la letteratura) per poi raccontare, per lo più attraverso la voce del proteiforme Qfwfq, storie surreali sull’origine del cosmo e della vita.

Non vi è dubbio che Calvino sia uno dei più grandi scrittori della nostra letteratura e che sia stato, al suo tempo, un protagonista di altissimo livello dei dibattiti politici e culturali. La sua scrittura è limpida e precisa; certe sue invenzioni geniali. Eppure, come dicevo, non mi sono innamorata di lui. A differenza di Sciascia, che i libri di letteratura spesso associano a Calvino per ragioni essenzialmente di vicinanza cronologica, lo trovo uno scrittore piuttosto freddo, senza il calore della passione che anima le opere del suo contemporaneo siciliano. A volte i due autori toccano anche lo stesso tema – il crollo degli ideali resistenziali (Calvino era stato partigiano) e la degenerazione della politica; eppure i personaggi sciasciani sono per lo più dei lottatori, votati alla sconfitta ma tuttavia combattivi fino alla fine, mentre quelli di Calvino sono degli inetti, capricciosi, nevrotici e falliti fin dalla prima pagina.

Amo Sciascia perché, nonostante tutto, conserva il senso di valori irrinunciabili per i quali vale la pena di lottare e anche di morire, per non tradirli e dunque per non tradire la propria umanità più vera e più alta; in Calvino sembra invece che nel naufragio di idee e ideologie nulla si salvi, nessun punto fermo rimanga. Di qui scaturisce il tratto caratteristico dell’opera dello scrittore che più mi sconcerta e che infine mi disturba: una sorta di ambiguità, non so fino a che punto voluta (talvolta, come nel Barone rampante, ho avuto l’impressione che la cosa sia sfuggita di mano). I libri di Calvino sembrano dire qualcosa, fino ad un certo punto; e poi sembra che dicano qualcosa di diverso, e il messaggio sfugge, si avvolge su stesso, si perde nel vortice dell’invenzione.

No, decisamente non posso innamorarmi di uno scrittore del genere. Ho bisogno di autori che lascino una morale della favola chiara, anche dolorosa e pessimistica se è loro convinzione, ma senza relativismi, senza compromessi. Dal mio punto di vista, che è certamente di parte (ma tant’è), resta perciò inaccettabile che sui libri di scuola si dedichino dieci o anche venti pagine a Calvino e non più di tre o quattro a Sciascia (fatta salva qualche rarissima eccezione). Sciascia paga probabilmente lo scotto di aver mantenuto fin troppo salde le proprie convinzioni fondamentali, a costo di fare il vuoto intorno a sé in un’epoca di ambiguità e trasformismi.

Condividi
Recensione di
D. S.

Sono una lettrice vorace, una cinefila entusiasta e un'insegnante appassionata del suo lavoro; e non so concepire le tre cose disgiunte l'una dall'altra.

Vedi tutte le recensioni
Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

13 commenti
Recensione di D. S.