Un popolo di roccia e vento – Golnaz Hashemzadeh Bonde

Tra le tante tragedie della storia recente del Medio Oriente non si può non ricordare la rivoluzione che alla fine degli anni Settanta del secolo scorso portò alla fine del regime degli scià iraniani e all’affermazione della repubblica islamica. Queste vicende sono rievocate nel romanzo della scrittrice iraniana naturalizzata svedese Golnaz Hashemzadeh Bonde (1983) dal titolo Un popolo di roccia e vento (Det var vi, 2017).

La narrazione ha inizio in Svezia ai giorni nostri, quando Nahid, rifugiata iraniana che da trent’anni vive nel Paese scandinavo, riceve la terribile notizia di essere stata colpita da un male incurabile. Comincia così un calvario che durerà molti mesi e spingerà la donna a ripensare a se stessa e alle scelte compiute, al proprio Paese d’origine e alle vicende della rivoluzione alla quale aveva aderito e a causa della quale lasciò l’Iran.

La voce narrante è proprio quella di Nahid, il che ci consente di entrare nel profondo dei suoi pensieri, dei suoi sentimenti, dei suoi ricordi. Scopriamo così una donna indurita e fragile, egoista e rabbiosa, che si porta dentro rimorsi, rimpianti e senso di irremediabile sradicamento. Costante, nella sua vita, è stato il desiderio di scampare alla morte, a qualunque costo; ma in qualche caso (anche se lei lo ha compreso a pieno solo dopo) il prezzo è stato così alto che non basta un’esistenza intera a scontarlo: Nahid lo sa, lo riconosce, e lucidamente e impietosamente analizza se stessa, il suo egoismo, la sua incapacità di credere e di amare davvero qualcosa o qualcuno; questo però non riesce a renderla migliore, come se ormai non fosse più possibile. E il cancro che la consuma le sembra l’unica conclusione possibile di una vita che è durata fin troppo a lungo e che sarebbe stato meglio finisse al tempo della rivoluzione: non solo una conclusione, ma infine, nonostante la paura, l’unico modo per trovare pace, nella speranza, che è certezza, che le donne che le sopravvivranno – la figlia e soprattutto la nipote – non saranno polvere nel vento ma radici saldamente piantate.

Più di una volta Nahid sottolinea che il prospero Occidente non conosce nulla della sofferenza autentica, e in effetti tanti di noi vivono una vita comoda e perfino agiata e non conoscono dittatura, fame e guerra; ma è vero anche che non per tutti gli Occidentali  la vita è serena e ricca. Ma per Nahid questo diventa un alibi per giustificare astio e diffidenza verso il mondo che pure l’ha accolta, quando in realtà sono sentimenti che prova verso se stessa.

Un libro disturbante, non c’è dubbio. L’autrice mostra una straordinaria capacità di introspezione e ci consegna un personaggio scomodo, con il quale non si riesce ad entrare in empatia e che però non solo ci riporta alla mente eventi recenti, che sono già “Storia” e che non dobbiamo dimenticare, ma anche ci ripropone a suo modo la domanda difficilissima di come si possa attraversare il dolore e la tragedia restando umani. Non tutti ci riescono e non tutti siamo eroi (sventurata la terra che ne ha bisogno!).

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Recensione di
D. S.

Sono una lettrice vorace, una cinefila entusiasta e un'insegnante appassionata del suo lavoro; e non so concepire le tre cose disgiunte l'una dall'altra.

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