Quando scrivo questa recensione, non so con certezza se questo sia il primo romanzo di Clélie Avit ma, via via che procedo con la lettura ne sono sempre più convinta per diversi motivi: da una parte la “presunzione” nel voler raccontare una storia che è stata già immaginata da decine di autori e sceneggiatori (e letta/vista da altrettanti pubblici), dall’altra l’ingenuità dell’uso di un linguaggio poco ricercato, con un uso semplice delle parole, senza una vera ricerca di stile.
Ma non voglia questo mio inizio, speziare di negativo il brodo di questo libro che, alla fine, è un romanzo che mi è piaciuto, seppur condito dai suddetti difetti.
Elsa è in coma: nei capitoli alternati dedicati a lei e alla sua narrazione in prima perona, ci racconta di come è finita a vegetare su un letto d’ospedale e di come, dopo mesi di buio totale, le sia tornato solamente un senso, l’udito. Elsa sente tutto quello che la circonda e il sentire è l’unica cosa che la tiene a galla, che la spinge a non arrendersi, anche se i medici e la sua famiglia stanno già pensando se staccare la spina alle macchine che la tengono in vita in quella camera silenziosa.
Ma è proprio nel silenzio di quella camera, che una mattina irrompe Thibault: suo fratello è un pirata della strada ricoverato a poche porte di distanza da Elsa. Thibault, incapace di affrontare la tragedia provocata dal fratello, cerca asilo in una stanza che crede vuota e che invece ospita Elsa e il suo profumo al gelsomino.
Per Thibault, parlare della sua tragedia con Elsa è un toccasana: lei non risponde, non reagisce, non commenta e soprattutto non giudica.
Ma Elsa in realtà sente tutto e quella nuova voce entrata all’improvviso nella sua vita, diventa motivo in più per ritornare, anche se i restanti quattro sensi sembrano proprio averla abbandonata.
Ps – alla fine questo è davvero il primo romanzo di Clélie Avit: aspettiamo i prossimi!