Sessanta racconti – Dino Buzzati

Un paio di mesi fa avevo pubblicato una recensione ai primi trentasei racconti della raccolta. Completata in questi giorni la lettura del libro, ripropongo la mia recensione ampliata e compiuta.

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Nel 1958 lo scrittore Dino Buzzati (San Pellegrino di Belluno, 1906 – Milano, 1972) pubblicò in un unico volume sessanta racconti, i primi trentasei tratti da raccolte già edite in anni precedenti. La nuova raccolta prese appunto il titolo di Sessanta racconti. I primi nove avevano fatto parte di I sette messaggeri del 1942, i secondi nove di Paura alla Scala del 1949 e altri diciotto di Il crollo della Baliverna del 1954: evidentemente Buzzati ritenne questi racconti i prodotti migliori della sua narrativa breve precedente e in effetti siamo davanti a opere che, salvo poche eccezioni, sono davvero dei piccoli gioielli. Di notevole valore sono anche molti dei racconti successivi.

Ripercorrere tutte le narrazioni è naturalmente impossibile e sarebbe anche inutile. Ma una ricognizione delle più belle è doverosa. A cominciare da quelle che davano il titolo alle tre raccolte citate. I sette messaggeri introduce il lettore in un’atmosfera sospesa, onirica, a tratti angosciosa, tipica di tante altre scritture dell’autore e che qui realizza uno degli esiti più felici: il principe partito alla ricerca dei confini dell’impero del padre si rende conto che questi non sono raggiungibili, eppure decide di proseguire il viaggio allontanandosi irrimediabilmente dalla capitale e dai propri cari: suggestiva metafora dell’esistenza umana che brancola nell’incertezza e nella solitudine compiendo un viaggio che forse, esso soltanto, può diventare il senso. Paura alla Scala allude esplicitamente a vicende politiche contemporanee: nobiltà e alta borghesia intervenute ad una discussa prima della Scala di Milano temono una rivoluzione che le spazzerà via e la paura, dilagando, rivela la vera indole di ciascuno: anche in questo caso, però, c’è un secondo livello di lettura di tipo allegorico che parla più in generale della fragilità dell’uomo, in balia di se stesso prima che degli eventi esterni. Infine c’è Il crollo della Baliverna, forse il più kafkiano dei tre racconti considerati, lento e ossessivo nella descrizione dei particolari: un uomo non riesce a liberarsi dai sensi di colpa rispetto ad un tragico evento del quale si sente responsabile: metafora, di nuovo, della condizione esistenziale di chi non è veramente arbitro della propria sorte e non riesce a comprendere gli eventi e ad accettarne le conseguenze.51oa9-7LnBL._SY344_BO1,204,203,200_ Ma accanto a questi si deve citare Le mura di Anagoor, in cui l’avventura del protagonista nel deserto africano si risolve in un fallimento e in una rinuncia perché non è la volontà umana a realizzare gli eventi, ma solo un caso cieco e incomprensibile che sembra anzi rivoltarsi contro l’azione e l’impegno dell’uomo. Ancora merita di essere ricordato Sciopero dei telefoni, che racconta di strane interferenze nelle comunicazioni telefoniche e va interpretato come un apologo sulla solitudine dell’uomo contemporaneo.

I motivi tendono a ripetersi: ad esempio, diversi racconti ruotano intorno al tema dell’atomica, che costituiva la più grande paura degli anni della guerra fredda; altri sono dedicati al tema religioso (peraltro oggetto di una inesausta riflessione interiore di Buzzati) attraverso figure di santi e di peccatori. Ma se i temi ritornano, le immagini sono ogni volta nuove, figlie di una fantasia ricchissima e in certi casi visionaria. È inoltre veramente notevole la capacità dello scrittore di tenere alta la suspense fino alla conclusione, spesso assolutamente inattesa, della narrazione. Il testo meno riuscito è probabilmente Inviti superflui, che più che un racconto è un lamento d’amore che segue l’avvicendarsi delle stagioni: la ridondanza retorica guasta righe che altrimenti sarebbero state tenere e struggenti come poche. Tra le narrazioni meno valide si può ricordare anche Due pesi due misure, che nel denunciare giustamente alcune ipocrisie dei tempi moderni segue però uno schema meccanico e banalizzante.

Nei racconti di Buzzati il piano letterale si accompagna sempre ad un altro di tipo simbolico-allegorico, che esprime una concezione della vita dolorosa e cupa, il senso di un mistero imperscrutabile, spaventoso ma a volte anche attraente (la maggior parte delle narrazioni si conclude senza svelare il mistero di cui, di volta in volta, si racconta: emblematici, in questo senso, Qualcosa era successo e La notizia), e dell’impotenza dell’uomo di fronte agli impulsi interiori più profondi (spesso anche crudeli senza motivo: L’uccisione del drago, I reziarii, Non aspettavano altro) come agli eventi esterni (Sette piani, Una cosa che comincia per elle). Di fronte a tutto questo l’uomo si ritrova drammaticamente solo (La città personale) mentre questa solitudine si configura progressivamente come il prodotto della moderna società delle nuove tecnologie e delle ambizioni sfrenate. A questo meccanismo sfuggono solo poche figure di santi (perfino extraterrestri, nel racconto Il disco si posò), incomprensibili e irraggiungibili per l’uomo comune. Si deve inoltre osservare che nei racconti della seconda parte, che presentano spesso un più immediato collegamento con i temi e i problemi del tempo contemporaneo all’autore, le immagini letterarie tendono a farsi meno affascinanti e evocative.

Come altri narratori italiani di quegli anni Dino Buzzati ha rappresentato, nella propria peculiare maniera, i timori e le angosce dell’uomo che viveva o era appena uscito dalla seconda guerra mondiale e facilmente poteva sentirsi in balia di forze oscure affioranti da un ignoto profondo e incomprensibile. Fondamentalmente apolitico, lo scrittore aderì al fascismo, conquistato da alcuni dei suoi miti (come il militarismo, poi rinnegato: si leggano ad esempio Il mantello e La canzone di guerra); ma fu anche tra i redattori del primo numero del Corriere della Sera dopo la Liberazione: tuttavia in entrambe le vesti rimase sostanzialmente indifferente ai meccanismi della politica e al confronto ideologico, che probabilmente alimentavano in lui un senso di estraneità e di incomprensione nei confronti della realtà. L’impegno politico, dunque, non poté costituire mai per Buzzati un senso. Ma nei racconti è anche assente, quasi del tutto, il tema dell’amore, insieme con le figure femminili: Inviti superflui rappresenta una distanza incolmabile tra l’uomo e l’amata; Una lettera d’amore addirittura il rinnegamento del sentimento stesso. Evidentemente anche l’amore non era, per Buzzati, una risposta: a ribadire la condizione di irrimediabile solitudine dell’uomo.

Settant’anni dopo le paure del mondo globalizzato hanno nomi specifici diversi, ma il sentimento di fondo sembra spesso essere lo stesso di cui narrava lo scrittore: perciò, se da un lato i racconti di Buzzati si rivelano decisamente figli del proprio tempo, dall’altro riescono ancora a parlare a noi oggi, più di quanto magari siamo disposti ad ammettere. La scommessa, ora come allora, è quella di individuare un’alternativa, una filosofia positiva che ci restituisca la fiducia di essere artefici del nostro destino, come singoli uomini e come popoli: un nuovo Umanesimo, un nuovo Illuminismo, che liberino l’uomo dalle angosce e lo facciano uscire dal guscio del senso di impotenza e di solitudine. Così i racconti di Buzzati potranno restare nelle nostre memorie letterarie come fiabe (spesso splendide) di un mondo ormai superato.

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Recensione di
D. S.

Sono una lettrice vorace, una cinefila entusiasta e un'insegnante appassionata del suo lavoro; e non so concepire le tre cose disgiunte l'una dall'altra.

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