Prometeo Incatenato – Eschilo

Doloroso è parlare, doloroso è tacere.

Eschilo, in una qualche data a cavallo tra il VI e il V secolo avanti cristo, è stato il primo a raggiungere la maturità del genere tragico. O almeno questo è quello che ci racconta il sempre molto autorevole Aristotele e quel che ci piace pensare poiché non abbiamo che pochi frammenti dei suoi predecessori. Oramai, visto che il grande vecchio di Stagira l’abbiamo scomodato, approfittiamo e mettiamo in scena la sua definizione di tragedia dalla Poetica:

Tragedia è dunque imitazione di un’azione seria e compiuta, avente una propria grandezza, con parola ornata, distintamente per ciascun elemento nelle sue parti, di persone che agiscono e non tramite una narrazione, la quale per mezzo di pietà e paura porta a compimento la depurazione di siffatte emozioni.

La depurazione di pietà e paura tramite l’azione e con l’uso di una parola ornata, nobile, piena di significato. Il Prometeo Incatenato di Eschilo fa agire una storia, un mito, che dovrebbe essere più o meno noto, spero veramente più, ma comunque, Prometeo, titano, figlio di Temide, dopo aver aiutato Zeus a vincere i Titani si oppone alla sua decisione di distruggere il genere umano, prodotto di Crono, per ricrearlo da capo. Per impedirgli l’atto decide di aiutare quelli che:

operavano sempre e non sapevano,
finché indicai come sottilmente
si conoscano il sorgere del sole e il calare
degli astri, e infine per loro scoprii
il numero, la prima conoscenza
e i segni scritti come si compongono,
la memoria di tutto, che è la madre
operosa del coro delle Muse.

e dopo aver aiutati a sviluppare quello che potremmo identificare come l’approccio razionale alla vita, una conoscenza per imporsi sulla natura, per fare memoria e vincere il terrore della morte con la poesia e le arti delle muse, dice ancora:

[…] Arsi carni avvolte d’adipe
e lunghi lombi e guidai i mortali,
a una conoscenza indimostrabile,
e aprii i loro grevi occhi velati
ai vividi presagi della fiamma.

mostrando agli uomini un approccio misterico, al di là dell’umano, che possa spingerlo verso ciò che è al di là della comprensione. L’arte delle divinazione con cui conoscere ciò che ancora non è, la possibilità di scoprire le carte del Fato. Per tutto questo viene punito dal padre degli dei, incatenato, da un Efesto riluttante e pietoso che è costretto all’azione dalla volontà di Zeus e dalle dure parole di Potere (Kratos,Κρατος), ad una roccia impervia, in solitudine. A questo punto, Prometeo, ergendosi in tutta la sua statura ancora non si piega al volere di Zeus, gli rifiuta i suoi vaticini, gli nega la conoscenza che aveva donato agli uomini, irride Ermete per il suo essere un misero servo e viene ancora punito: un’aquila gli strazierà il fegato di giorno, ma il suo sangue immortale glielo farà ricrescere durante la notte e questo supplizio si ripeterà per tutta l’eternità. O fino a che qualcuno non deciderà di liberare il Titano, ma questa, come si suol dire, è un’altra storia.

Questa è l’azione, almeno per sommi capi, poi restano le parole ornate di Eschilo, le splendide parole di Eschilo, che ti tengono incollato alla pagina e ti fanno divorare la cinquantina di pagine della tragedia, come a lasciarti attaccato a quella roccia con Prometeo. Una lettura da fare tutta d’un fiato e da gustare a tutto tondo. Un elogio dell’ostinazione, della pervicacia e delle proprie convinzioni. Qualcosa che, sicuramente, non è morto con il tragediografo greco in quel remoto V secolo.

Che dirvi più: buona lettura!

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