Due famiglie sconvolte per l’ingresso dell’ETA nelle loro vite: amicizie di lunga data troncate per non mostrarsi vicini agli obiettivi delle illazioni sui muri della città, ideologie abbracciate senza riserve, la vaga minaccia di assassinio diventata concretezza, l’adesione a un movimento terroristico con l’epilogo dell’imprigionamento; nel frattempo, la vita va avanti e travolge i tanti personaggi con relazioni sentimentali fallimentari, malattie, segreti, cuori trattenuti o delusi.
Lungo romanzo scritto saltando da un registro all’altro, alternando terza e prima persona. Qualche pagina in meno avrebbe giovato, dato che, soprattutto nella prima metà, Aramburu indugia (ad arte) sullo stato d’animo della moglie che ha perso il marito; tanti personaggi sono forse necessari all’autore per inquadrare la stessa vicenda con occhi diversi, andando oltre i soli ucciso e uccisore (ma sarà stato lui?): il figlio della vittima che non si permette di essere felice, la figlia che vive la perdita con finta leggerezza, la sorella del carcerato costretta da un ictus a esprimersi con frasi stringate e sagge, in contrasto con sua madre determinata ad appoggiare il figlio sempre e comunque, il fratellino “secchione”… Tanti volti non sempre descritti in maniera omogenea, rischiando in alcuni casi lo stereotipo.
Definire Patria un romanzo sull’omicidio di un borghese sarebbe riduttivo: c’è dentro tutto il mondo ma forse la parte più riuscita è la descrizione di un popolo, il suo orgoglio, l’ignoranza, la fede.
Impegnativo e commovente.