Le intermittenze della morte – José Saramago

Quel che mi affascina di José Saramago (Azinhaga, 1922 – Tías, 2010) è la sua capacità di costruire intrecci avvincenti partendo da un evento strano, talvolta surreale, sempre sorprendente e fino alla fine inspiegabile, che sopraggiunge improvviso a rompere gli equilibri e dal quale si dipana poi una vicenda a suo modo del tutto coerente. La narrazione è poi spesso accompagnata da osservazioni e provocazioni che toccano i temi della morale, della religione, della politica e che si intrecciano perfettamente alle storie narrate regalando al lettore anche stimolanti spunti di riflessione. Lo stile, con le sue ben note peculiarità (dialoghi non delimitati da virgolette, nomi propri con l’iniziale minuscola oppure omessi del tutto…), è caratterizzato anche da una sferzante ironia, ora amara, ora dura, ora più leggera, che aggiunge un’ulteriore nota alla già ricca armonia. Questo equilibrio di tematiche e di toni non si realizza sempre nella stessa misura, ma di certo si apprezza nel romanzo pubblicato nel 2005, Le intermittenze della morte (As intermitências da morte), che a dispetto del titolo è una delle narrazioni più fantasiose e romantiche dell’autore portoghese. Qualche lungaggine (tipica peraltro dello stile di Saramago) appesantisce alcuni passaggi e rallenta a volte eccessivamente il ritmo della narrazione, ma complessivamente siamo davanti ad un’altra notevolissima prova dello scrittore.

Allo scoccare della mezzanotte del 31 dicembre di un anno contemporaneo non precisato, in un Paese anch’esso imprecisato, la popolazione smette di morire. Chi era allo stadio terminale di una malattia o si stava consumando per vecchiaia resta sospeso sul confine tra la vita e la morte e ad essi, col trascorrere del tempo, vengono ad aggiungersi altre migliaia di individui nella stessa condizione. Non è la sperata età dell’oro, come gli abitanti ben presto comprendono: la vita eterna infatti non si accompagna all’eterna giovinezza e nemmeno all’eterna salute e si rivela dunque solo uno strazio senza fine. Dopo sette mesi la morte stessa (con l’iniziale rigorosamente minuscola, come capirà chi leggerà il romanzo) annuncia che la gente ricomincerà a morire e che da questo momento, a differenza del passato, riceverà un avviso una settimana prima dell’evento. La popolazione si trova così catapultata in un nuovo incubo, non trovando pace in attesa dell’avvertimento fatidico. Il meccanismo si inceppa quando un musicista sfugge alla fine che gli è destinata. Questa circostanza, mai verificatasi in precedenza, obbliga la morte ad intervenire personalmente; ma la questione la coinvolgerà al punto da farle perdere di vista la sua missione fatale.

Nella prima parte del romanzo prevalgono le note polemiche e amare. Le “intermittenze della morte” offrono l’occasione al narratore per mostrarci il lato spesso più meschino e abietto dell’uomo della strada come del politico e del chierico. Tranne nel caso di poche eccezioni, la reazione alla circostanza straordinaria della sospensione della morte è vile e utilitaristica. E non migliore prova offrono di sé istituzioni e privati cittadini quando la signora con la falce torna a colpire. Il romanzo diventa quindi, come è tipico di Saramago, un apologo sull’egoismo degli uomini, sull’incapacità e sulla corruzione del potere politico e in questo caso particolare anche sull’ipocrisia e sulla malafede delle Chiese (e in particolare di quella «cattolica, apostolica e romana», contro la quale sono più spesso diretti gli strali dello scrittore). Il tema specifico del libro, inoltre, offre l’opportunità di una riflessione sul rapporto dell’uomo con la morte (e con la vita) e in qualche modo anche sul libero arbitrio e sull’eutanasia. Temi universali e attualissimi, e che lo scrittore ormai anziano e non lontano dall’ultimo confine, doveva sentire con particolare intensità.

Nella seconda parte del romanzo l’autore sceglie invece toni più intimisti, fino ad una conclusione in fondo prevedibile e che eccede forse in sentimentalismo, ma decisamente consolante. Quella di cui in fondo, dopo duecento pagine in cui hanno dominato i peggiori sentimenti, il lettore (e probabilmente il narratore per primo) sente il bisogno. Come in Cecità, come nella Caverna, come nella Zattera di pietra, nonostante un profondo pessimismo nei confronti del genere umano, Saramago scopre una speranza, non più di una scintilla, ma sufficiente per illuminare lui e anche noi. Questa speranza si chiama amore.

Condividi
Recensione di
D. S.

Sono una lettrice vorace, una cinefila entusiasta e un'insegnante appassionata del suo lavoro; e non so concepire le tre cose disgiunte l'una dall'altra.

Vedi tutte le recensioni
Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Recensione di D. S.