Le Fontane del Paradiso – Arthur C. Clarke

Uno dei più grossi pregi della fantascienza d’autore è quello di presentare innovazioni tecnologiche che poggiano su basi scientifiche spesso molto solide, tutt’altro che utopistiche e, a volte, addirittura già prese ampiamente in considerazione dalla scienza attuale. Si viene a creare quindi una sorta di connessione tra il mondo reale e quello narrato e il tutto assume contorni più vividi, perché ciò che stiamo leggendo forse un giorno lo vedremo sul serio – o lo vedranno i nostri figli/nipoti. E’ il caso de “Le Fontane del Paradiso” del grande Arthur C. Clarke, un romanzo che ruota interamente intorno alle fasi iniziali della progettazione e della costruzione di un ascensore spaziale.

Senza entrare troppo nello specifico – se volete approfondire potete rivolgervi a WikiPedia – un elevatore spaziale è una gigantesca struttura orbitale che collega un punto sulla terra con un satellite ad orbita geostazionaria posto a decine di migliaia di chilometri di distanza (36.000 nel caso della torre orbitale descritta dal libro) mediante cavi e strutture composte da materiali resistenti ad enormi sollecitazioni. Questa soluzione è in grado di abbattere massicciamente i costi per il trasporto di materiali e persone in orbita, che con le tecnologie attuali (propulsione mediante razzi) sono molto elevati.

Le vicende narrate si svolgono interamente nell’isola equatoriale di Taprobane, che lo stesso Clarke ha dichiarato corrispondente al 90% con l’attuale Sri Lanka. Il variopinto sfondo della vicenda è rappresentato dalle rovine del palazzo Yakkagala (molto simili a quelle di Sigiriya) e dalle antiche vicende di Re Kalidas (nome di finzione che corrisponde a Re Kashyapa). Il fortissimo contrasto tra culture distanti tra loro è inebriante, e Clarke riesce a creare un amalgama così ben dosato che le vicende si mischiano alle leggende e danno vita ad un’ambientazione in cui il progresso tecnologico convive con tradizioni, usi e costumi antichissimi. E uno dei baluardi del passato ancora in piedi è il monastero costruito sulla cima del monte Sri Kanda (che ricorda molto da vicino Sri Pada), abitato da un antico ordine di monaci buddhisti che si opporrà con tutte le forze alla costruzione dell’elevatore.

Tutto ha inizio da una visita del Dr. Vannevar Morgan – capo ingegnere alla Terran Construction Corporation – alla montagna che, secondo il suo progetto, ospiterà la stazione di partenza dell’elevatore. In questa occasione si inizia a familiarizzare con la sua visione del futuro della razza umana, destinata secondo lui ad espandersi e ad uscire dai confini ideali dell’atmosfera terrestre, e anche con l’incredibile materiale sulle cui proprietà si baserà l’intera costruzione. La narrazione scorre in modo molto fluido e Clarke arricchisce il tutto con storie di epoche remote – le cui tracce iniziano a sbiadire nelle menti e nei paesaggi di Taprobane – e con proficue visite da mondi lontani.
Il fulcro del libro è senza dubbio la fase finale della gestazione di un sogno ambizioso e complesso, ricco di insidie e che presenterà, pagina dopo pagina, difficoltà di natura terrena e non. E proprio quando l’intero progetto sembra destinato a trionfare, l’autore ci regala un’incredibile parte finale che riesce a mettere in stretta relazione due dimensioni tanto diverse e lontane tra loro: lo spazio che ci circonda e le paure, le speranze e i valori – ossia la sfera emotiva – di un singolo individuo.
L’epilogo è un intelligente quanto fugace sguardo al futuro che ci attende, e pur svolgendosi sulla Terra, riesce a far percepire per intero le dimensioni dell’opera di Morgan.

Consigliato agli amanti del genere, agli appassionati dello spazio – il libro trabocca di dettagli e informazioni tecniche – e a chi, come lo stesso Clarke, nonostante tutto riesce ancora a nutrire una fiducia smodata nelle capacità e nelle potenzialità dell’uomo.

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Recensione di
Simone Fracassa

Mi chiamo Simone (per gli amici Darsch), faccio lo sviluppatore web, sono appassionato di informatica, cinema, videogiochi e fotografia, e mi dilett(av)o a suonare la batteria. La lettura è un bisogno primario, un po' come respirare. Non esco mai senza il mio Kindle, di cui sono un fanatico dagli albori, e un qualsiasi strumento - generalmente un paio di cuffie e del buon heavy metal - che possa essere utilizzato per isolarmi dal mondo esterno e infilarmi nel mio infundibulo cronosinclastico (grazie Vonnegut, di tutto). Più che leggere mi immergo nella lettura: mi piacciono i dettagli e i particolari, rileggo spesso lo stesso paragrafo più volte se è sufficientemente intenso e in definitiva adoro perdermi tra le volute di immagini e sensazioni scaturite da quelle pagine. Sono convinto che la potenza di un buon libro sia tutta in quel piccolo, impercettibile attimo di smarrimento che si prova chiudendolo e tornando alla realtà.
Sono aperto e disponibile a qualsiasi genere, ma i miei amori indiscussi sono il fantasy (quello vero, massiccio, epico: Jordan, Erikson, Sanderson), la fantascienza d'autore e la saggistica scientifica.
A volte attraverso dei periodi nostalgici e mi dedico alla rilettura dei miei libri preferiti, a discapito di eventuali nuove, meritevoli scoperte. Ma che ci volete fare, la memoria col tempo gioca brutti scherzi e alcune storie meritano di essere rispolverate ciclicamente, perché è giusto che facciano sempre parte della tua vita.

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