La quintessenza del noir è tutta nell’impossibilità di prevedere come andrà a finire, e non perché le trame siano complicate fino all’inverosimile o riescano a ingannare perfettamente il lettore: solo perché l’autore nasconde qualunque particolare che potrebbe tradirlo – anche se il piacere di aver scoperto l’assassino in anticipo invoglia spesso alla lettura.
La sposa in neroè questo, un marchingegno il cui funzionamento si scopre solo nelle ultime pagine, imprevedibile. Per dirla tutta, assomiglia più a un giallo originale, atipico, che a un noir: le lunghe conversazioni non sempre necessarie allo sviluppo narrativo, i monologhi del protagonista, storie d’amore impossibili non ci sono nel romanzo, che si nutre tutto di una femme fatale camaleontica e crudele, indecifrabile, che nessuno riesce ad acciuffare. Cosa lega le morti che si susseguono? Com’è possibile che la donna svanisca dalla scena del crimine senza lasciare alcuna traccia – o quasi – utile per identificarla? Cornell Woolrich s’inventa una storia avvincente e plausibile, senza forzature ridicole, per rispondere a queste domande. Sorprende il lettore in un finale che lo confonde proprio perché lo trascina in un binario narrativo diverso e gli fa notare la deviazione solo all’ultimo istante, sciogliendo un nodo di tensione e avvenimenti che sembrava non avesse né un capo, né una coda.
C’è qualcosa di temibile e affascinante nella sposa vestita di nero, e il solo fatto di ritrovarla sempre al principio di ogni capitolo ispira una simpatia incondizionata o un’avversione motivata: entrambe trappole per la curiosità dei lettori.