Mattia e Alice, due vite segnate ciascuna da un evento traumatico fin dall’infanzia, due storie parallele, che si intrecciano a tratti senza mai toccarsi fino in fondo. Due storie di solitudine, del sentirsi “diversi”, seguite mirabilmente dal giovane autore, dall’infanzia, all’adolescenza, all’età adulta. I caratteri si sviluppano ma rimane un’amarezza di fondo nel loro essere “numeri primi”, divisibili solo per sé stessi e per uno, l’emblema della solitudine.
Un libro molto controverso, vincitore di premi prestigiosi, da qualcuno ho sentito dire che non fosse all’altezza, oppure “non mi ha detto niente”. Personalmente a me è piaciuto molto. È stata una lettura estiva e mi ha subito catturata e questa è per me una dote fondamentale per definire un libro “un buon libro”, mi deve prendere e portare dentro una storia, dentro dei luoghi (in questo caso la mia Torino) ma soprattutto dentro la psicologia, dentro la mente e l’anima del personaggio, devo sentire nel personaggio o nei personaggi qualcosa di “mio”. E questo libro lo ha fatto, ancora di più dell’ultimo libro dello stesso autore che sto leggendo adesso “Il corpo umano”. Qui i personaggi sono molteplici e l’introspezione psicologica è inevitabilmente diluita, rispetto alla solitudine dei numeri primi, dove i protagonisti sono solo due.
Non mi trovo tanto d’accordo con Paolo Giordano quando afferma che non c’è niente di peggio che l’essere speciali, la definisce una condanna. Io invece mi trovo con la visione del celebre artista Rudolf Nureyev “Chi vola in alto è sempre solo”.
Per il resto è un ottimo libro, da consigliare, all’altezza dei premi ricevuti.