La morte a Venezia – Thomas Mann

Da sempre, Venezia è una delle mie città del cuore. Maestosa e decadente, racchiude in sé l’essenza assoluta della bellezza e allo stesso tempo il veleno implacabile della sua fine, della caducità del tempo, dei sogni che si infrangono. Ho appena trascorso lì un fine settimana e non ho perso l’occasione per rileggere uno dei miei racconti preferiti, Morte a Venezia di Thomas Mann.

Adoro Mann, sin da quando l’ho letto per la prima volta da ragazzina. Mi piace tantissimo la totale assenza di redenzione delle sue storie, che sono taglienti e scarne come lame affilate, il senso del grottesco, dello squallido – il tutto descritto attraverso una scrittura di un’eleganza innegabile. Tra i primi scrittori ad anticipare quelle che sarebbero state le illusioni e le disillusioni dell’uomo contemporaneo, complicato ed inquieto, i suoi racconti somigliano a delle stanze chiuse e con gli angoli pieni di muffa, in cui all’improvviso si spalancano le finestre ed entra un po’ di luce. Ma è solo un attimo, un colpo di vento ha già fatto chiudere le persiane e tutto sprofonda di nuovo nel buio e nell’odore di stantio.

In Morte a Venezia, Mann racconta gli ultimi stralci della vita del professor Aschenbach, stimato e conosciuto scrittore e studioso tedesco, che decide di recarsi a Venezia per qualche tempo per cercare di trovare un po’ di sollievo agli acciacchi del fisico e dell’anima. Sono ancora i tempi delle villeggiature lunghissime, degli alberghi straordinari, di questo microcosmo formato da famiglie nobili, scrittori e artisti che si lasciavano scivolare addosso i giorni, in un’estate immobile che sembrava durare in eterno. Aschenbach è un uomo fragile e insoddisfatto, incapace di godere delle soddisfazioni e del prestigio che il lavoro di una vita gli ha procurato: confuso e contraddittorio, sembra scrutare il mondo con gli occhi di un vecchio bambino disilluso, ma ancora capace di stupirsi e di innamorarsi.

Ed è proprio così, all’improvviso, che nella sua esistenza entra Tadzio, uno splendido e giovanissimo efebo di appena tredici anni, bello come il sole e con quella noncuranza a metà tra innocenza e malizia, tipica dell’età e dell’educazione repressiva ai limiti del morboso di quei tempi. Molti hanno paragonato questa storia a quella di Lolita ma, a mio avviso, non hanno nulla in comune: la passione di Aschenbach per Tadzio rimane assolutamente platonica, i due non si sfiorano neanche di sfuggita. Allo stesso tempo, è chiaro fin dall’inizio che la tenerezza che il ragazzino suscita nel vecchio professore non ha nulla di paterno: è qualcosa di molto più profondo, conturbante, spaventoso e splendente, qualcosa di così inconfessabile che lo stesso professore ne ha repulsione, prova paura e sbigottimento. Più che passione e desiderio fisico, si tratta di invidia, profondissima e assoluta, per la raggiante giovinezza di lui, per quel suo contenere in potenza qualsiasi possibile cosa, così distante da una vita che sta vivendo i suoi ultimi atti, dove tutto è già stato detto e fatto. L’inconsapevole bellezza di Tadzio è come una spina nel cuore di Aschenbach, che ha perso i giorni e la vista cercando nei libri e nelle parole il significato possibile delle cose, per poi rendersi conto con stupore – e una strana forma di rassegnazione – che questo sta nella bellezza più pura, dono immeritato che viene fatto solo ad alcuni, trasformando tutti gli altri in impotenti spettatori, corrosi dall’invidia e dal desiderio di emulazione.

Si susseguono pagine bellissime, in cui Aschenbach umilia se stesso tra parrucchieri e belletti rincorrendo una giovinezza che altro non è che una maschera grottesca e inquietante, seguendo Tadzio lungo le calli e i canali di una Venezia che è contemporaneamente sogno e palcoscenico, città inverosimile e ingannevole, con i suoi edifici che riflettendosi sull’acqua in un eterno gioco di specchi confondono lo sguardo e le idee, città nella città, fuse insieme al punto tale che non si riesce più a capire quale sia la realtà e quale la finzione.
E il segreto di Venezia è terribile quanto banale: dietro la sua facciata di magnificenza, si cela lo squallore del colera, che miete vittime su vittime nel silenzio e nella connivenza di polizia e abitanti, preoccupati che il venire alla luce della verità possa privare la città di turismo e di guadagno. In una città che metaforicamente sprofonda, con i liquami e le piaghe della malattia che macchiano le facciate bianche degli antichi palazzi nobiliari, assistiamo impotenti alla fine di un’esistenza, al calpestarsi di una dignità, all’ironia che rimane forse – e nonostante tutto – l’ultimo possibile antidoto contro lo spiazzante vuoto della vita.

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MaddalenaErre
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