Il giorno della civetta – Leonardo Sciascia

Il giorno della civetta di Leonardo Sciascia (Racalmuto, 1921 – Palermo, 1989) fu pubblicato per la prima volta nel 1961 ed esplose come una bomba.

Un mattino di gennaio, in un paesino siciliano denominato semplicemente S., viene assassinato il piccolo imprenditore edile Salvatore Colasberna. Le indagini vengono affidate ad un giovane capitano dei carabinieri originario di Parma.
Ex-partigiano, innamorato della libertà, della giustizia e della povera terra siciliana martoriata dalla mafia, il capitano Bellodi riesce a risalire a don Mariano Arena, il boss della zona, e a farlo incarcerare. Il mafioso, però, può contare su amici molto influenti a Roma e viene liberato e completamente scagionato.
Ritornato per un breve periodo nella sua città natale, Bellodi viene raggiunto dalla notizia dell’insabbiamento della sua inchiesta. Tuttavia non si arrende: tornerà in quella regione fantastica e terribile e riprenderà la lotta alla mafia.

Il giorno della civetta è stato il primo testo che abbia parlato in maniera esplicita e concreta della mafia siciliana, dei suoi meccanismi di speculazione e di violenza e delle connivenze tra mafia e politica. Erano i primi anni ’60 e in quel periodo l’esistenza stessa della mafia era negata, non tanto da chi viveva lontano dalla realtà siciliana (come le giovani amiche parmensi del capitano Bellodi), bensì, e anzitutto, da quegli esponenti della classe dirigente che avevano ogni interesse a tenere nascosto ciò su cui si fondava il loro stesso potere.
Perciò il romanzo di Sciascia, ispirato peraltro a un fatto di cronaca, fece tanto scalpore e costrinse il suo autore a tagliare via alcuni episodi e a rinunciare a definizioni più precise di luoghi e persone.
Nonostante questo, il romanzo resta una testimonianza preziosa e assolutamente attendibile.

Ad alcuni, a dire il vero, il giudizio di Sciascia sulla mafia è parso ambiguo: come se l’autore avesse finito col giustificarla, almeno in qualche misura.
Ma non è una corretta interpretazione.
Il romanzo, nel suo stile semplice e lineare, è un’opera anche romantica, quasi lirica. L’amore di Sciascia verso la sua terra si percepisce costantemente; così come l’indignazione nei confronti di una politica, recente e meno recente, che ha messo in ginocchio la Sicilia e l’ha condannata, consegnandola di fatto nelle mani della mafia.
Un episodio emblematico è quello che ha per protagonista un vecchio pastore che ha chiamato il suo cane cattivo e feroce col nome di Barruggieddu: Barruggieddu significa “bargello”, poliziotto. Il contadino dunque associa le forze dell’ordine alla ferocia, alla malvagità. Perché per tanti, troppi Siciliani l’autorità è stata sinonimo di violenza e di sopruso più spesso che garanzia di giustizia e libertà.
Questo passaggio del romanzo mette i brividi. Esprime infatti il dramma siciliano (e meridionale in generale) nella maniera più immediata e in certo modo toccante.
Tuttavia, appunto, non bisogna commettere l’errore di leggere in quelle righe un cedimento dell’autore di fronte alla mafia. C’è invece dolore, ma anche rabbia, e una riflessione di grande valore etico: quella di Bellodi, che, rendendosi conto del significato del nome di quel cane, ripensa a se stesso e si ripromette una volta di più di combattere la mafia senza mai ricorrere a sistemi violenti e prevaricatori. Perché il fine non giustifica qualunque mezzo.

 Le due figure dominanti del romanzo sono proprio quelle di Bellodi e di don Mariano Arena.
Il primo rappresenta il senso profondo della giustizia e l’amore incondizionato per la verità, accompagnati dall’ardore e dall’entusiasmo della giovinezza. Il secondo rappresenta il sistema mafioso, a suo modo coerente, ma assolutamente disumano.
Celeberrimo è l’episodio in cui i due si confrontano durante il serrato interrogatorio del boss da parte del capitano. Questo è anche uno dei passaggi in cui qualcuno ha colto un cedimento dell’autore, soprattutto laddove don Mariano riconosce il valore del suo antagonista (migliore, anche ai suoi occhi di mafioso, di quanti lo hanno preceduto nell’incarico), ricevendo a sua volta una sorta di riconoscimento da un Bellodi profondamente imbarazzato.
Bisogna però andare oltre la superficie. Bellodi, e Sciascia dietro di lui, capiscono che ci sono delle ragioni che hanno determinato le scelte di don Mariano, ragioni storiche e politiche, oltre che personali: ragioni profonde e gravi. E condannano la mafia, ma insieme a lei un sistema politico corrotto che dietro la mafia si nasconde e grazie alla mafia prospera.

È facile innamorarsi di Bellodi, della sua determinazione, della sua rettitudine, della sua pensosità malinconica, della sua incrollabile speranza.
Nei romanzi successivi di Sciascia si avverte un incupirsi della sua visione del mondo, un pessimismo sempre più profondo. Ma per quanto folle possa sembrare questa speranza, bisogna sforzarsi di credere che un mondo diverso e migliore sia un giorno possibile, grazie ai tanti capitani Bellodi sparsi sulla Terra e tra le più diverse professioni.

«‘Bargello’ pensò il capitano ‘bargello come me: anch’io col mio breve raggio di corda, col mio collare, col mio furore’ […] E ancora pensò di sé ‘cane della legge’; e poi pensò ‘cani del Signore’, che erano i Domenicani, e ‘Inquisizione’: parola che scese come in una vuota oscura cripta, cupamente svegliando gli echi della fantasia e della storia. E con pena si chiese se non avesse già valicato, fanatico cane della legge, la soglia di quella cripta»
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Recensione di
D. S.

Sono una lettrice vorace, una cinefila entusiasta e un'insegnante appassionata del suo lavoro; e non so concepire le tre cose disgiunte l'una dall'altra.

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