Il cuore perduto dell’Asia

Quasi duemila anni fa, nel grande impero cinese, un conflitto tra il Regno del Nord e il regno del Sud si risolse a favore di quest’ultimo anche grazie all’intervento di un terzo regno dell’impero. Questa storia l’ha raccontata anche Jon Woo al cinema, nella Battaglia dei Tre Regni, un paio d’anni fa.
Quello che il film non può raccontare è che gli abitanti del nord, scacciati, emigrarono a ovest, scacciando a loro volta altre popolazioni  o fondendosi con esse, occupando spazi e spingendo altre genti al movimento, sempre verso ovest. Quella prima ondata di esuli guerrieri si andò ingrossando di generazione in generazione, acquistò impeto di marea, oltrepassò le steppe, dilagò in un’Europa già declinante verso le età di mezzo a causa della crisi di un altro impero, fino ad abbattersi infine su Roma stessa, che uscì schiantata dall’orda ormai incontenibile di quelli che volle chiamare barbari e che venivano da quelle terre incognite nel cuore dell’Asia di cui sempre si era parlato con timore superstizioso.
Il più grande impero occidentale crollò così sotto la spinta di un’onda sollevatasi cinque secoli prima in un altro mondo,  nel dominio di un altro impero, altrettanto potente, di cui a malapena a Roma si aveva notizia.
Da un angolo di mondo remoto sorsero potenze in grado di indirizzare il corso della storia. Né fu l’unica volta: dal cuore dell’Asia si rivelarono al mondo Gengis Khan e Timur Lengh (per noi Tamerlano), che fondarono imperi effimeri, ma estesi dai confini della Cina fino alle porte dell’Occidente e, sempre, terrorizzarono le genti europee.
Ecco, se a leggere questa storia vi scatta una frenesia incontrollabile, una curiosità bruciante che vi incendia la fantasia, vi spinge a compulsare testi, mappe e guide e vi piomba in uno stato febbrile dal quale riemergete solo parecchi mesi più tardi a bordo di un autobus in mezzo alla steppa, diretti a Samarcanda, allora non vi dispiacerà leggere il seguito di questa recensione doppia. Altrimenti è probabile che vi possa mortalmente annoiare.
La letteratura di viaggio è un genere particolare che non a tutti piace. Chi la ama, normalmente moltiplica ogni viaggio per due: quello reale e quello sognato al lume dei libri letti prima, durante e dopo. L’effetto finale è una sedimentazione dei ricordi che non distingue più tra viaggio e libri, tanto che a volte non si è più davvero certi di cosa si è visto e di cosa si è letto. “Come ogni grande viaggiatore, ho visto più cose di quante ne ricordi e ne ricordo più di quante ne abbia viste”, diceva Benjamin Disraeli.
Questa (troppo) lunga premessa è per introdurre due libri molto belli, da cui farsi senz’altro accompagnare se si decide di incamminarsi verso quelle regioni di cui oggi, tutto sommato, non sappiamo molto di più di quanto ne sapessero gli antichi romani.
Il Cuore Perduto dell’Asia, di Colin Thubron, percorre luoghi di cui spesso sappiamo solo il nome, per averlo sentito nelle notizie di coda di qualche TG: Turkmenistan, Kirghizistan, Uzbekistan, Kazakistan. Ci sarebbe anche l’Afghanistan, ma quello lo conosciamo, a dispetto del nostro eurocentrismo. O forse proprio a causa di questo.
E’ un libro denso, capace di fondere la migliore tradizione anglosassone con quella latina, che sono molto diverse in quanto a letteratura di viaggio: interessata, la prima, a paesaggi e architetture, a volte pare quasi dimentica degli esseri umani che popolano i luoghi; al contrario, l’altra molto spesso racconta solo atmosfere e alimenta promesse false come fate morgane, sfumando ogni dettaglio in suggestioni in cui non sempre, a posteriori, si riesce a ritrovare il proprio vissuto. Questo libro racconta di strade polverose e di steppe, di tombe reali e di palazzi, di ciò che resta delle bianche torri di Samarcanda, ma anche delle persone incontrate lungo la strada, della generosità di alcuni e delle arti squallide con cui altri sbarcano il lunario in quelle terre ormai desolate e ancora stordite, ora che si riaffacciano alla storia dopo essere state eclissate da settant’anni di comunismo che le ha letteralmente occultate sotto una coltre di oblìo. Cosa c’è laggiù? Ecco, una risposta poetica e documentata a questa domanda sembra il fine di questo piccolo capolavoro, che riesce a tenere insieme i due termini di un simile ossimoro. Ci sono racconti epici, come la storia dello zoppo Timur Lengh, il discendente di Gengis Khan che in pochi anni terrorizzò l’asia e costruì un impero grande come quello di Alessandro. Gli fu fatale l’Hindu Kush – l’assassino degli indù, il massiccio montuoso che stava tentando di scavalcare in pieno inverno per invadere la Cina – e pare che morendo abbia maledetto chiunque avesse osato profanare la sua tomba, condannandolo a doversi difendere da un nemico mille volte più feroce di lui. Più o meno all’una di notte di un certo giorno del 1941 alcuni archeologi di un gruppo di ricerca sovietico riuscirono a penetrare nel sepolcro. Alle 5 Hitler diede il via all’invasione nazista della Russia. Coincidenze, ovvio, ma entrare nella tomba, oggi per la verità molto frequentata, con questa storia in testa, mette comunque addosso un certo sottile disagio. Ed è bella la storia di Nasreddin, il santo sciocco dell’Islam, che alle lamentele di sua figlia riguardo al marito che la picchiava, la picchiò a sua volta: “lui mi ha picchiato la figlia, e io per punirlo gli picchio la moglie”. Non fa una piega. E c’è la tragedia dell’Aral, che non so se ci avete mai fatto caso, ma provate a vedere cosa succede se lo visualizzate con Google Maps, prima in modalità “mappa” e poi in modalità “satellite”: vi accorgerete che è scomparso quasi del tutto, ridotto a un deserto di sale e pesticidi. Un mare interno grande come mezza Italia. Il più grande disastro ecologico della storia.
Di narrazioni così questo libro è pieno, così come lo è di luoghi, volti, sorrisi, rimpianti, speranze e umanità. Non è un libro per tutti, ma almeno i viaggiatori non dovrebbero perderselo.
Così come non dovrebbero perdersi neanche il capolavoro di Peter Hopkirk, Il Grande Gioco, di recente riproposto da Adelphi in economica. L’espressione che dà il titolo al libro è stata resa celebre da Kipling, in Kim, che se ne vuole andare al nord (dell’India) “a giocare al Grande Gioco”, cioè alla colossale guerra sotterranea tra spie russe, inglesi e francesi che per due secoli, tra la fine del settecento e i primi anni del novecento, si sfidarono nelle estensioni sterminate tra le steppe e l’Himalaya per il possesso della perla delle Colonie: l’India fantastica della seta e delle spezie. Ce l’avevano gli inglesi e la voleva lo zar, ma anche Napoleone, che fantasticava una campagna come quella d’Egitto o una marcia folle da Parigi a Dheli, valicando il Pamir, l’Hindu Kush e l’Himalaya. Non lo fece mai, ma ci pensò davvero. Il libro è straordinario nel mettere insieme la precisione e lo scrupolo dello storico con la narrazione di un affabulatore: leggerete, se vi piacerà, dei mille minuscoli khanati delle steppe, governati da satrapi folli e feroci avvezzi a decapitare, squartare, torturare e tormentare in ogni modo le spie occidentali che catturavano e con cui magari erano stati in affari fino al giorno prima; conoscerete figure mitiche, come quella di Barnes di Bukhara, forse l’unico ad aver capito come erano fatti davvero gli afgani, e che pure morì linciato a Kabul; e che dire dell’incredibile ritirata di sedicimila inglesi attraverso il Khiber Pass, annichiliti dai guerriglieri afgani che pure gli avevano promesso la salvezza, se avessero levato le tende? Uno solo si salvò, il medico militare, che giunse infine al primo forte inglese in India terrorizzato e ormai unico depositario di una storia tanto assurda da non poter quasi essere creduta. E magari ci sarà più facile capire come mai anche oggi l’esercito più potente del mondo non riesce ad aver ragione di “quei quattro pecorai”, come qualche incauto li ha definiti. E scoprirete che il Grande Gioco non è finito mai, anzi è ricominciato, ora che in quelle terre perdute si sono scoperte le droghe di cui il mondo non sa fare a meno: petrolio, gas, uranio. Protagoniste questa volta sono le multinazionali dell’energia, a cominciare dall’ENI, capofila nello sfruttamento del petrolio del Caspio, riva kazakha. Anche oggi, come tanti secoli fa, in quei posti sconosciuti si gioca, a insaputa di tutti, il futuro del mondo. Hopkirk dà una grossa mano a chi ha voglia di capire, e lo fa con un saggio avvincente come un romanzo, in cui affiora il colore dei sogni che ognuno di noi, da bambino, può aver fatto sul favoloso oriente. Due libri, due gioielli. Per pochi, probabilmente: difficile che venga passione per rotte così remote e fuori dal giro del grande turismo, se per qualche motivo non ci si è stati. Ma chi decide di mettersi in cammino lungo i tratti meno noti della via della seta, non dovrebbe farsi mancare la compagnia di due ciceroni di questa levatura.

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2 commenti
  • mi hai fatto venire così tanta voglia che mi appunto Il Cuore Perduto dell'Asia nella mia wishlist libresca.
    (l'altro mi attrae di meno, ma son gusti!)

  • Sono due libri molto diversi, il secondo è scritto in modo avvincente e rigurgita (come l'altro) di storie, ma è pur sempre un saggio. Spero che Thubron ti piaccia: è un libro denso, a volte si fa fatica, ma è una fatica che vale la pena. Buona lettura!
    Capelli d'Argento

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