Come sono diventato stupido – Martin Page

"Per coloro che sono perfettamente integrati nella società esiste una sola stagione, un'estate perpetua, che abbronza la loro mente a un sole che non tramonta sul loro sonno: hanno sogni in cui non fa mai notte. Antoine aveva vissuto venticinque anni di autunno piovoso: d'ora in poi, fosse inverno, primavera, autunno, per la sua coscienza non ci sarebbe stato altro che il regno indistinto dell'estate." 

 
Quando ci si accorge che il malessere esistenziale nasce dall'essere intelligenti, non c'è altra via images (2)che la rinuncia a questa maledizione. E allora non resta che iniziare a studiare per disimparare.

Antoine ha venticinque anni e, dopo anni di logoramento e acuta osservazione introspettiva, è giunto all’eden della scoperta: il suo malessere è, senza dubbio alcuno, da associarsi alla sua grande intelligenza.  Arrivato a questa illuminazione decide di ripudiare questo dono e allo stesso tempo maledizione. Rinuncia alla sua intelligenza per un’esistenza meno gloriosa, sì, ma di certo meno complicata. Inizia a studiare diversi metodi per avvicinarsi alla stupidità, ma lo fa nel suo stile: con metodo rigoroso.
Si incammina, dunque, nella dorata valle della stupidità intraprendendo tutti i sentieri possibili: alcolismo, suicidio, ausilio farmacologico. Dove arriverà? Non voglio svelarvelo.

Non voglio farlo perché questo libro merita davvero. È permeato da un umorismo brillante, a metà strada tra quello del migliore Woody Allen e di Daniel Pennac. È scritto davvero bene, forma stilistica ineccepibile e un vocabolario notevole e mai ripetitivo. Ottimo ritmo. Invidiabile profondità. Mai banale. Tocca apici di splendente poeticità per fiondarsi, un attimo dopo, su una linea sarcastica disarmante e divertentissima.

L’ho trovato molto originale, empatico e sofferto. Punta al cervello e all’anima.
Si legge in pochissimo tempo pur lasciando sul palato il sapore di quelle intuizioni che arrivano al punto e smuovono le coscienze.
Critica serrata della “paillettata” società consumistica occidentale, per la quale più possiedi meglio stai…quella società che rifugge l’autoanalisi concedendo sempre più spazio agli svaghi pratici perché pensare fa male. Eppure, Page fa tutto questo in maniera lieve e soffusa, mai volgare. Come un bambino, dice quello che pensa, ma la sua ironia pungente è disarmante.
Però…ebbene si, c’è un però. Senza incorrere nell’errore di “spoilerare”, va detto che il libro perde improvvisamente ritmo e audacia man mano che ci si incammina verso l’ultimo capitolo.
La prima metà dell’opera è avvolta in una grazia notevole, curata fin nei dettagli nella forma e nello stile. Poi il mio caro Page mi cade un po’ nell’ovvio e nella banalità.
In primis perché la scelta conclusiva mi sembra poco realistica. In secondo luogo c’è da dire che arriva al lettore il dubbio che il romanzo sia “tirato via” pur di dare l’idea dell’Happy ending.
A voi giudicare.

Assolutamente lo consiglio. Sono pochi i libri che inebriano e divertono allo stesso tempo. E l’ingenuità dell’ultimo capitolino possiamo comunque perdonargliela.

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Recensione di
Evey

Sono Eva, 34 anni, laureata in Lettere e Filosofia e in Storia e Critica dell'Arte. Da 8 anni collaboro come consulente editoriale con tre grossi nomi dell'editoria.
Lettrice, pittrice, bassista, viaggiatrice on the road. Lavoro al mio primo romanzo e seguo corsi di criminologia.
Chiedetemi di Palahniuk e di Massimo Picozzi...

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