Auschwitz. Ero il numero 220543 – Denis Avey

Come forse ho già scritto in altre occasioni, non amo particolarmente le “giornate della memoria”. Per meglio dire, temo che si risolvano in celebrazioni enfatiche di eventi che poi resteranno dimenticati per i 364 giorni successivi. Le mie letture e le mie riflessioni su temi come l’Olocausto sono costanti, e lo dimostrano anche le mie recensioni di libri che trattano questo argomento e che ho pubblicato in date molto diverse; al tempo stesso, tuttavia, non lascio mai trascorrere una data come questa senza un ulteriore contributo. Questa volta ho scelto un libro controverso, frutto della collaborazione tra Denis Avey (Essex, 1919), ex soldato inglese deportato ad Auschwitz, e il giornalista Rob Broomby. Il libro è uscito nel 2011 e in italiano porta il titolo Auschwitz. Ero il numero 220543 (The man who broke into Auschwitz).

Denis Avey era un giovane militare inglese inviato durante la seconda guerra mondiale a combattere in Africa. Catturato dai Tedeschi, fu imprigionato in Grecia e in Italia e infine, nel 1944, deportato ad Auschwitz. Lì fu internato nel campo di lavoro E715, adiacente al lager, subendo gravi privazioni e vessazioni che però non erano paragonabili a quelle che subivano gli Ebrei e gli altri prigionieri di Auschwitz: i prigionieri di guerra erano infatti tutelati, almeno fino ad un certo punto, dalla Convenzione di Ginevra. Tuttavia Denis e i suoi compagni di prigionia lavoravano a stretto contatto con gli altri internati ed egli ebbe modo di rendersi conto degli orrori che a lui e ai suoi compagni venivano risparmiati. Per saperne di più organizzò perfino uno scambio e trascorse due notti dentro Auschwitz al posto di un ebreo olandese di nome Hans. Aiutò poi un altro ebreo, Ernst, che aveva una sorella in Inghilterra: riuscì a fargli arrivare una lettera della stessa sorella e, tramite lei, delle sigarette, che dentro il lager erano preziosissima merce di scambio. Fuggito durante la marcia della morte nel gennaio 1945, quando i Tedeschi cercarono di mettersi in salvo trascinando con sé i prigionieri che riuscivano a camminare, Denis riuscì infine a rientrare in patria. Aveva perso trenta chili, ma soprattutto si portava dietro il ricordo di violenze efferate che lo avevano solo sfiorato, ma che lo avevano comunque profondamente segnato.www.inmondadori.it

Avey racconta che per decenni non riuscì a parlare delle sue esperienze ad Auschwitz: sentiva che non c’era interesse vero a conoscere l’orrore dei campi nazisti e lui stesso era confuso e spiazzato. Per lungo tempo tormentato dagli incubi, a poco a poco Denis ritrovò un equilibrio senza però mai confidarsi con nessuno, neppure con la seconda moglie, che pure qualcosa aveva intuito. Finché, partecipando nel 2003 ad una trasmissione sulle pensioni di guerra e rispondendo ad una inaspettata domanda sulla sua esperienza di soldato, cominciò per la prima volta a raccontare di Auschwitz nel dettaglio. Da quel momento Denis non ha più smesso di rilasciare interviste e in particolare è entrato in contatto con il giornalista Broomby, con il quale ha deciso di mettere ogni cosa per iscritto. Grazie alle ricerche del giornalista ha scoperto tra l’altro che anche l’ebreo Ernst era sopravvissuto alla marcia della morte e si era trasferito in America: purtroppo Ernst era ormai morto, ma Avey ha potuto ascoltare la testimonianza che lui ha registrato per la Shoah Foundation, dove, ad un certo punto, si parla anche proprio di lui, di Denis, e del dono preziosissimo e insperato delle sigarette e della lettera (l’estratto in questione, con i sottotitoli in italiano, si può vedere qui).

Il libro è stato accolto e recensito molto bene da più parti, ma è stato anche oggetto di critiche, alcune feroci, anche in chiave revisionista.

Criticabile è senza dubbio la campagna pubblicitaria del libro, che lascia intendere qualcosa di diverso da quello che è realmente accaduto, come se Avey avesse trascorso mesi nel lager con l’intento di salvare quanti più prigionieri possibile. Inoltre il modo di presentarsi, egocentrico e machista, di Avey non lo rende simpatico. Ancora, siamo davanti ad una testimonianza che non aggiunge nulla di nuovo a quello che abbiamo già letto altrove; la scrittura, infine, è di stampo giornalistico: semplice, immediata, lineare, priva della bellezza letteraria, della raffinatezza, di un capolavoro come Se questo è un uomo di Primo Levi.

Tuttavia il libro di Avey e Broomby non è affatto superfluo: il suo stile lo rende sicuramente accessibile ad un largo pubblico e questo è molto importante in questo nostro tempo in cui i testimoni diretti ancora viventi sono rimasti in pochi e si tende pericolosamente a dimenticare. Più di un detrattore ha osservato che non è possibile trovare conferme del racconto di Avey (fatta eccezione per la vicenda di Ernst); nessuna argomentazione però riesce neppure a smentirlo. Pertanto, in ragione della corrispondenza inequivocabile tra la testimonianza di Denis e quella di Ernst, non c’è motivo di dubitare ad ogni costo del resto del racconto.

Personalmente, infine, ho trovato molto interessante anche la prima parte del libro, in cui Avey narra gli eventi della guerra in Africa, su cui finora non avevo letto nulla di tanto dettagliato. Qualche lettore nostrano si è risentito per il ritratto poco lusinghiero degli Italiani che Denis ha tracciato, ma quelli erano gli umori del nemico durante il conflitto e l’ex soldato semplicemente li ha rievocati (e non possiamo affermare, peraltro, che il quadro offerto sia sempre, necessariamente, deformato dalla rivalità).

Senza dunque pretendere da questo libro più di quanto esso sia in grado di offrire, si tratta di una lettura che ha certamente una sua utilità.

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Recensione di
D. S.

Sono una lettrice vorace, una cinefila entusiasta e un'insegnante appassionata del suo lavoro; e non so concepire le tre cose disgiunte l'una dall'altra.

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