La speculazione edilizia – Italo Calvino

Nonostante Italo Calvino (Santiago de Las Vegas, 1923 – Siena, 1985) non sia uno dei miei autori prediletti, non potrei mai negare il talento dello scrittore e il valore della sua testimonianza. I suoi romanzi cosiddetti realistici, in particolare, pur non essendo tra le sue opere più felici, offrono uno spaccato di vita italiana e un innegabile contributo al dibattito intorno ai grandi cambiamenti che investirono il nostro Paese tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento. Di quei decenni, e del miracoloso boom economico che li caratterizzò, scrittori come Calvino si sono proposti come la coscienza critica, che fa emergere le storture e le contraddizioni. Questo è senz’altro il caso del racconto (meglio: romanzo breve) La speculazione edilizia, pubblicato per la prima volta nel 1957.

Quinto è un giovane intellettuale che, dopo aver combattuto la Resistenza, non riesce ad inserirsi nei meccanismi economici e culturali della nuova Italia repubblicana. Pensa infine di investire in un’impresa edilizia per la quale però non ha interesse né talento.

La storia si svolge su uno sfondo ben descritto, oltre che attraverso tanti accenni sparsi lungo il racconto, in particolare nel capitolo XIV. È l’Italia del benessere diffuso e del crollo degli ideali: l’Italia degli elettrodomestici e della villeggiatura di massa che però intanto ha già perduto gli slanci e i valori della lotta partigiana; l’Italia delle speculazioni spregiudicate e della DC al potere che ha già dimenticato la figura austera ma esemplare di De Gasperi. Il protagonista Quinto, personaggio autobiografico secondo la definizione dello stesso autore, non prova vero interesse per nulla, non porta a termine alcun progetto o programma, rifiuta i legami sentimentali impegnativi: è un giovane uomo apatico, privo di passione, spesso triste. Sa di non avere la cultura degli amici Bensi e Cerveteri né le capacità imprenditoriali del costruttore Caisotti né l’entusiasmo per le battaglie sociali del falegname Masera; sa, insomma, di essere un fallito, anche se cerca di nascondere queste verità dietro una facciata di sicurezza e di spregiudicatezza: la realtà si rivela però chiaramente a lui, e ancor più chiaramente a chi lo guarda dall’esterno. Mentre dunque la Liguria è vittima di una cementificazione selvaggia (la povera Liguria un tempo verdissima, come amorevolmente descritta nel Barone Rampante), Quinto cerca una collocazione e un riscatto che non sa e non vuole realizzare. L’alternarsi del punto di vista del narratore e di quello del protagonista svela in maniera spietata gli autoinganni, i complessi di inferiorità e l’inettitudine del giovane.

Il personaggio di Quinto riporta effettivamente alla mente altri celebri “inetti” della nostra storia letteraria, come quelli dei romanzi di Svevo, non privi di cultura, ma velleitari, e certamente disadattati: coscienza critica della crisi di un mondo della quale sono partecipi a loro volta. Dopo decenni dai romanzi sveviani, Quinto Anfossi è un personaggio dello stesso tipo. Certamente realistico, e dunque preziosa testimonianza storica di atteggiamenti e di umori di un’epoca, è però un personaggio che, al pari di Amerigo Ormea (protagonista del successivo e più complesso romanzo La giornata d’uno scrutatore), non può e non deve risultare simpatico; alla cui abulia, che peraltro è sentimento ancora per molti versi attuale, bisogna contrapporre una rinnovata determinazione e rinnovati ideali di riferimento che non siano solo vuote parole, motti vani, ma convinzione profonda da cui scaturisca una concreta azione di cambiamento. E noi Italiani, in particolare, potremmo ripartire proprio dalla Resistenza (tradita), di cui saremmo dovuti essere eredi più degni.

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Recensione di
D. S.

Sono una lettrice vorace, una cinefila entusiasta e un'insegnante appassionata del suo lavoro; e non so concepire le tre cose disgiunte l'una dall'altra.

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