Candido o l’ottimismo – Voltaire

Ogni tanto, probabilmente meno spesso di quanto il mio lavoro e il mio amore per la letteratura richiederebbero, torno ai classici. Lo spunto, in questo caso, mi è stato offerto dalla lettura di autori novecenteschi che si sono ispirati al grande illuminista francese; e proprio il confronto tra opere concepite a distanza di secoli (e tra il passato recente o meno recente e il nostro tempo) è l’aspetto a mio parere più interessante, quello che dà senso alla rilettura del classico.

Nel 1759, nella Francia illuminista, François-Marie Arouet, meglio conosciuto con il soprannome di Voltaire (Parigi, 1694 – 1778), pubblicava un breve romanzo intitolato Candido o l’ottimismo (Candide ou l’optimisme). Voltaire non fu l’unico a cimentarsi con il racconto filosofico nella Francia pre-rivoluzionaria: altri filosofi, da Montesquieu a Diderot a Rousseau, fecero lo stesso, convinti che attraverso una narrazione avvincente, accattivante, divertente potessero più efficacemente diffondere i valori della nuova cultura illuministica, moderna e razionale. La composizione dei racconti procedeva spesso di pari passo con la scrittura di opere saggistiche, più esposte alla stretta censura del tempo. Il Candido, con la sua narrazione lineare ed essenziale, può sulle prime deludere il lettore contemporaneo, che ha conosciuto il romanzo storico e quello naturalista/verista, la narrativa di introspezione psicologica e quella ispirata dallo strutturalismo, fino a quella che si definisce post-moderna; ma l’operetta di Voltaire si colloca agli albori del romanzo moderno e, ciò che più conta, quel che interessava all’autore settecentesco era trasmettere un messaggio filosofico e morale, insieme a qualche giudizio sulla letteratura e i suoi autori più celebrati. È in questa ottica che va letto e apprezzato il libriccino francese, in cui la storia narrata è solo un divertente pretesto.

Candido è un giovane dolce e ingenuo che cresce nel castello di un potente barone della Westfalia. Quando però il signore scopre la relazione tra Candido e la bella baronessinaCunegonda lo scaccia in malo modo. A partire da questo momento il protagonista va incontro a numerose peripezie, che lo portano ad attraversare vari paesi e città tra il Vecchio e il Nuovo Mondo. Nelle sue rocambolesche avventure Candido porta sempre con sé, non senza concepire dubbi, l’insegnamento del maestro Pangloss, secondo il quale l’uomo vive nel migliore dei mondi la migliore delle sorti. Infine Candido e Cunegonda, insieme ad altri personaggi incontrati lungo il viaggio e allo stesso Pangloss, si stabiliscono in una piccola fattoria in Turchia.

Il racconto sfrutta le vicissitudini di Candido, Cunegonda, Pangloss e altri (tra i quali va ricordato almeno il filosofo Martino, concreto e disilluso) per svolgere un discorso sulla presenza del male nel mondo. Di certo la soluzione non può essere offerta da Pangloss, con il suo ingenuo ottimismo di derivazione leibniziana: ed infatti Voltaire stesso, dopo aver fatto del maestro un personaggio caricaturale per l’intero racconto, avverte nelle ultime pagine che, dopo tante sofferenze patite, neppure lui credeva più di vivere nel migliore dei mondi possibili, pur continuando a professare la sua convinzione. Anche la posizione di Martino, che si definisce manicheo, non appare condivisibile, sbilanciata com’è verso un pessimismo irriducibile. Resta Candido, il giovane che attraverso naufragi, cataclismi naturali, guerre e persecuzioni diventa uomo: la sua nuova religione è che «Bisogna coltivare il nostro giardino», perché, come ha detto un contadino turco, il lavoro tiene lontani la noia, il vizio e il bisogno.

L’operetta dovette avere un notevole impatto sull’opinione pubblica del tempo. Le ripetute stoccate anticlericali, la denuncia della malvagità e dell’egoismo degli uomini (a cui si contrappone la vita semplice e generosa degli abitanti del mitico Eldorado), la nuova morale proposta non potevano restare senza eco. Sicuramente al successo non solo immediato del romanzo hanno contribuito il tono leggero, la fluidità della narrazione, il ritmo serrato, l’accumularsi dei colpi di scena. Non a caso il libriccino conquistò uno dei maggiori narratori del nostro secondo Novecento, Italo Calvino. Questi condivideva con Voltaire la passione per la narrazione surreale e dal ritmo incalzante, di gusto ariostesco (basti pensare alla trilogia degli Antenati di Calvino); come anche il divertimento della coniazione di nomi propri allusivi e buffi. Anche Leonardo Sciascia fu incantato dalla leggerezza della narrazione voltairiana e volle scrivere un proprio Candido, in cui si divertì a sua volta col gioco dei richiami e delle allusioni.
Tuttavia nel secondo Novecento, che si apriva con la guerra fredda e l’incubo atomico e continuava, dopo il boom economico, tra il riflusso e le stragi terroristiche, non era possibile riproporre la fiducia illuministica nella ragione e nel progresso. Anche scrittori di formazione che potremmo definire illuministica, razionalistica, come Calvino e Sciascia, sentivano che quell’ideale era stato sconfitto.index

Ma cosa voleva dire, per il Candido settecentesco, dedicarsi al proprio orto? Su questa frase, che chiude emblematicamente il racconto, si è lungamente discusso. L’interpretazione prevalente vuole Candido portavoce di una nuova morale laica e borghese: la morale del dovere e del lavoro, che bilancia la consapevolezza della presenza ineliminabile del male e del dolore nel mondo. Un nuovo ottimismo costruttivo da contrapporre a quello tradizionale e insensato di Pangloss. Nella Francia dell’Ancient Régime una nobiltà e un alto clero parassiti tentavano di conservare i propri privilegi economici e politici, escludendo non solo le masse popolari indigenti e ignoranti ma anche i nuovi ceti medi, che ormai erano il vero motore dell’economia nonché produttori e fruitori di una cultura nuova e moderna. Con il suo Candido Voltaire volle contribuire a diffondere valori nuovi, i valori di quella borghesia in ascesa che sarebbe stata, di lì a trent’anni, la vera anima della Rivoluzione.

La Rivoluzione è stata, come tutti i rivolgimenti politici violenti, un evento grandioso e terribile al tempo stesso; ma non si può negare che abbia cambiato per sempre il volto dell’Europa e contribuito a fondare i moderni regimi liberali e democratici. Sarebbe toccato poi al socialismo, nelle sue varie forme, portare l’attenzione sugli altri esclusi, sulle masse contadine e operaie, e dare vita ad una nuova rivoluzione sociale, economica e culturale.

Noi occidentali, oggi, siamo figli di quelle lotte e dovremmo imparare da chi le ha combattute, da chi ci ha creduto, da chi si è sacrificato; imparare anche dagli errori, dai fallimenti, dai bagni di sangue, a credere e a lottare per un mondo migliore e più giusto. Perché le nostre democrazie contemporanee sono quanto di meglio l’uomo abbia saputo produrre fino ad oggi, ma sono ancora largamente imperfette.
Troppe forme di emarginazione sociale, economica e culturale, troppa corruzione e troppe ingiustizie ancora permangono dal tempo in cui Voltaire faceva affermare a Pangloss e a Candido che tutti gli uomini sono uguali.

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D. S.

Sono una lettrice vorace, una cinefila entusiasta e un'insegnante appassionata del suo lavoro; e non so concepire le tre cose disgiunte l'una dall'altra.

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